di Anna Foti
Sono ancora una volta le vittime, le sentinelle di un’umanità distratta e colpevole di smemoratezza e superficialità. Sono ancora una volta le vittime che hanno subito perdite incalcolabili, lo strenuo baluardo del decoro e del pudore; sono loro a ricordarci che la Dignità é un valore irriducibile anche quando la Vita e la Libertà, che ne sono le espressioni più nobili, vengono assaltate e oltraggiate, ancora una volta; sono loro a ricordarci che salvano dall’oblio del Pensiero e dalla dimenticanza della Storia solo le Verità più dolorose e scomode, perché le altre verità non fanno fatica ad essere conosciute e riconosciute.
Dovrebbe essere di tutti la voce dell’indignazione delle madri di Srebrenica che hanno chiesto la revoca del premio Nobel per la Letteratura allo scrittore austriaco Peter Handke che durante la guerra nei Balcani difese il presidente della Repubblica Serba Slobodan Milosevic, accusato di crimini contro l’Umanità dal Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia. Quel processo si estinse nel 2006 per la morte sopraggiunta di Milosevic e, dunque, non sfociò in alcuna sentenza.
Chiamate a rivivere il dolore di essere sopravvissute a figli, mariti, fratelli, cari, le madri di Srebrenica si ritrovano strette di nuovo dal desiderio di Giustizia, Verità e Memoria. Lo stesso che a lungo le ha animate nel segno del motto Odgovornost (Responsabilità in lingua bosniaca), mentre chiedevano che l'impunità dei colpevoli di orribili crimini fosse intaccata fino a risultarne disintegrata, come avvenuto alla loro patria, la Jugoslavia, in quei terribili anni Novanta. Una giustizia sofferta e attesa, arrivata dopo oltre vent’anni.
Srebrenica
Era l’11 luglio 1995 quando fu scritto un capitolo vergognoso della Storia europea più recente: oltre ottomila uomini musulmani bosniaci furono trucidati dalle milizie serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić a Srebrenica, enclave musulmana espugnata così con il sangue e la violenza. Un'enclave che divenne una trappola in cui furono reclusi civili inermi colpevoli soltanto di essere bosniaci musulmani, mentre forti spinte nazionaliste serbe legittimavano una vergognosa pulizia etnica. Furono uccisi dopo essere stati separati da donne e bambini. Erano migliaia e ci vollero alcuni giorni per ... “finire”. Una pagina esecrabile e dolorosa della storia dei Balcani, scritta con il sangue innocente, incredibilmente consumatasi sotto gli occhi delle forze Onu; fatti che hanno a lungo cercato voce e giustizia, che non smettono di logorare cuore e anima di chi ha visto la propria famiglia e la propria vita distrutte in quel massacro.
Uccisi ancora
Una ferita profonda che in questi giorni è stata improvvisamente riaperta dall’assegnazione del Nobel per la Letteratura allo scrittore austriaco Peter Handke, sostenitore della causa nazionalista serba perpetrata dall’ex presidente della Repubblica Serba, Slobodan Milosevic che, in nome della stessa causa, prestò assistenza militare e non solo all'ex primo presidente della Repubblica Serba e Bosnia Erzegovina, Radovan Karadzic, e al generale Ratko Mladic (tutti e due condannati per crimini contro l’umanità tra i quali quello di genocidio a Srebrenica) durante quella guerra sanguinosa. Erano gli anni ‘90 e quel conflitto cambiò per sempre il destino di Popoli e Paesi, e non solo.
La giustizia dopo vent’anni
L’allora presidente della Repubblica Serba di Bosnia, Radovan Karadzić (catturato dopo dodici anni di latitanza), e il comandante militare dei serbo bosniaci a Srebrenica, il generale Ratko Mladić (estradato e catturato nel 2011 dopo sedici anni di latitanza), furono accusati di crimini contro l'umanità, tra cui il genocidio di Srebrenica, e furono condannati dal Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia all'ergastolo rispettivamente nel 2019 (in appello dopo una condanna a 40 anni in primo grado nel 2016) e nel 2017 (in primo grado). I crimini furono commessi nel 1995 e la giustizia diede risposte faticose più di vent’anni dopo.
Alcuna sentenza di condanna (ma neppure di assoluzione!), invece, arrivò mai per Slobodan Milosevic, al cui funerale nel 2006 era presente lo scrittore, oggi premio Nobel per la Letteratura, Peter Handke. Intervenuto in quell’occasione con un discorso, Handke sostenne di reputare doveroso essere lì per un uomo deceduto in carcere senza le cure necessarie, che lui non definiva un dittatore e che ormai, non potendo più da sè controbattere a quanto detto a suo carico dall’Europa, non volle lasciare solo in balia dei suoi numerosi e severi giudici, fuori e dentro il tribunale. Peter Handke affermò che morendo "Slobodan Milosevic non si è sottratto alla sua pena irrefutabile di prigione a vita". Così avrebbe scritto nella lettera con cui accompagnò l'invio ad un giornale del breve discorso pronunciato alle esequie di Milosevic, nel maggio 2006 a Pozarevac, dove ha raccontato di non avere programmato di recarsi prima di essere invitato dei familiari.
Lo scrittore e il giornalista, il presidente e il carnefice
In questi giorni di contestazione Peter Handke riduce la questione ad un fatto di forma che in realtà è, invece, proprio sostanza: Handke ha, infatti, dichiarato di aver manifestato un pensiero a titolo di scrittore e non di giornalista e che le sue non erano idee politiche. “Vi fu molto rumore quando scrivevo della guerra civile in Jugoslavia. Il mio era un punto di vista da scrittore” si legge su Il Libraio. Come possono non essere politici un pensiero, un atto, un gesto verso un personaggio politico dal trascorso controverso come Milosevic, di cui negli ultimi anni si è fatta anche disinformazione parlando di una sentenza di assoluzione, in verità mai emessa, invece che di un processo mai concluso, e sul quale rimangono grandi ombre. Se infatti nella sentenza di condanna di Karadzic si deduce che ci fossero “interessi divergenti” tra Belgrado e le milizie serbo-bosniaca, tra Milošević e Karadžić e i suoi e che vi fossero diversi modi di gestire la questione bosniaca al punto da non far ritenere al tribunale che “all’interno del processo in oggetto, fossero state trovate abbastanza prove che Milošević condividesse il piano comune”, è pur vero che nel maggio 1994 Karadžić dichiarò pubblicamente, che “senza la Serbia, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile. Senza risorse, non saremmo stati in grado di fare la guerra”. Dichiarazioni che restano agli atti come dato di non poco peso, nonostante la sentenza della Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja che ascrisse l’accaduto alla fattispecie di genocidio, escludendo l’ipotesi di un massacro premeditato dallo stato Serbo. Dunque non un genocidio di Stato, ma per la Serbia la sola responsabilità di non avere impedito il massacro di Srebrenica. Punti divergenti a parte, il sostegno militare del Presidente serbo alle milizie fu assicurato. Il governo serbo rimase accanto ai serbi di Bosnia al punto che fu Slobodan Milošević a sedersi, come leader di tutti i Serbi, al tavolo della pace per firmare gli accordi di Dayton del novembre del 1995. Proprio nell'anno della sentenza sopracitata (2016) a carico di Karadžić si rese, inoltre, opportuno che il tribunale dell’Aja precisasse di non aver “preso alcuna decisione sulla responsabilità di Slobodan Milošević nel suo verdetto su Radovan Karadžić. Il fatto che una persona si trovi a essere o meno membro di un’impresa criminale comune in un procedimento in cui non è imputata non ha alcun impatto sul suo caso o sulla sua responsabilità penale”.
La parola e il macigno
Le Madri di Srebrenica, testimoni resilienti di uno storia poco raccontata e per questo necessaria da conoscere, non avrebbero potuto restare silenti dinnanzi a questa assegnazione che, al di là delle dichiarazioni di circostanza e delle sentenza mancate, si pone come una intollerabile legittimazione. La parola Genocidio, nonostante l'attività del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, fa fatica a trovare cittadinanza nella storia della Serbia. Qui sono pochi - e tra questi pochi c’è il giornalista serbo Dušan Mašić - coloro che sono disposti a pronunciarla e a chiamare quanto accaduto con il nome corretto, ancorché scomodo. Motivo per il quale questa "leggerezza" dell'Accademia Svedese si scaglia come un macigno su una memoria ancora negata (nonostante l'edificazione del Memoriale di Potocari), proprio da chi ha causato gli strappi che ne hanno generato il bisogno.
Le madri di Srebrenica e gli altri ‘dissidenti’
Costituitesi circa sette anni dopo massacro in associazione, su impulso della prima presidente Hatidža Mehmedović, la casalinga diventata attivista per i diritti umani dopo aver perso il marito ed entrambi i figli, le madri di Srebrenica oppongono la loro resistenza civile a questa assegnazione che offende la memoria e quell’intelligenza che non è solo negli strumenti tecnici che l’Umanità affina e consegna al Prossimo ma che risiede anche e soprattutto nel cuore. Risuonano le parole della scrittrice americana Susan Sontag, che era a Sarajevo durante quel lungo l'assedio serbo (il più lungo della Storia del XX secolo) protrattosi dall’aprile del 1992 al febbraio del 1996, e quelle dello scrittore italiano Claudio Magris che avevano accusato Handke, mai ravvedutosi sulle posizioni a favore dei serbi durante la guerra nei Balcani, di avere minimizzato l'ultranazionalismo serbo e le sue azioni aggressive.
Questo premio é stato fortemente criticato anche dai premier albanese Edi Rama e kosovaro Hashim Thaçi.
L'attuale presidente dell'associazione le Madri di Srebrenica, Munira Subasic, sul portale bosniaco Klix, ha dichiarato che “l’uomo che ha difeso i carnefici dei Balcani non può ricevere il premio Nobel”. Ella, bollando la decisione come politica, ha evidenziato come i sopravvissuti a quei fatti siano "terribilmente feriti per l’assegnazione di questo Premio ad uno che ha difeso i criminali, specialmente coloro che hanno commesso il genocidio".
Peter Handke
Scrittore di pezzi teatrali, racconti, romanzi, saggi, poesie e diari ed anche sceneggiature, Peter Handke è stato anche reporter di viaggio e regista. I tanti romanzi - La storia della Matita, I Calabroni, Breve lettera del lungo addio - e le raccolte di poesie - Il mondo interno dell’esterno dell’interno e Infelicità senza desideri (dedicata alla madre che si suicidò nel 1971) - sono solo alcuni dei titoli di una prolifera attività di scrittore. Peter Handke ha collaborato anche con Wim Wenders per il film Prima del calcio di rigore (ispirato al suo omonimo romanzo) e per le sceneggiature del celebre Il cielo sopra Berlino e del sequel Così lontano così vicino. Una penna provocatoria che l'Accademia Svedese ha scelto di premiare "per un lavoro influente che con ingegnosità linguistica ha esplorato la periferia e la specificità dell’esperienza umana“. Lo stesso ingegnere ed inventore Alfred Nobel fu spinto dal desiderio di riscatto della sua opera quando, all’inizio del secolo scorso, istituì il premio per insignire coloro che più avrebbero contribuito al Benessere dell'Umanità.
Al Benessere dell'Umanità.
Oggi c'è un'Umanità che dissente e che pacificamente insorge rispetto ad un destinatario di questo riconoscimento. Non sono fanatici ma sono vittime di un genocidio avvenuto vicino a casa nostra, neppure mezzo secolo fa e neppure mezzo secolo dopo l'olocausto, in una zona posta sotto la protezione dell’Onu.
Srebo Insanguinato
Troppo sangue su una terra ancora lontana dalla profonda e autentica riconciliazione tra i popoli che la abitano. Srebrenica, luogo ferito nell'anima, incarna ancora oggi, ogni giorno, lungo i suoi confini e al cospetto dei suoi confinanti, una condizione lacerante: stato di Bosnia ed Erzegovina ed entità della Repubblica Serbia. Tra quelle montagne d'argento, come l'etimologia suggerisce (Srebro in serbocroato significa argento), la brillantezza è stata offuscata. Quell'argento è stato contaminato da rosso sangue, copioso e innocente, di civili inermi, vittime di gravissimi crimini. Ed invece di lavorare concretamente e senza ipocrisie per costruire la Pace laddove abbiamo tradito la Vita e la Libertà, la Comunità internazionale sembra voler continuare a sottacere la Storia e la Verità, ammettendo che siano accettabili e addirittura apprezzabili posizioni di fatto non contrarie, senza se e senza ma, alla violenza e al massacro, all'orrore.
Non è tollerabile mai, e non dovrà iniziare ad esserlo adesso, quella diserzione inquietante tra Scrittura e Libertà, ravvisata senza indugio dalla migliore Amica e compagna di viaggio di sempre con cui ho condiviso anche la scoperta e l’ascolto di quei luoghi profondamente feriti e profondamente palpitanti di Bellezza e Speranza.