di Anna Foti
“Addio monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si meraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.
Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne una più certa e più grande”.
Questo il brano più poetico con cui Alessandro Manzoni (Milano 1785/ 1873) ha impreziosito la tessitura de “I Promessi Sposi". Il 10 novembre 1628 Lucia Mondella, su consiglio di Fra’ Cristoforo, per sottrarsi ai capricci di don Rodrigo, lasciava la città natia di Lecco, attraversata dal timore di non farvi più ritorno, per cercare rifugio a Monza.
Una intensa pagina di letteratura divenuta universale che intona una ballata dell'esilio contaminata dalla drammaticità di Schiller, dai toni memorialistici di Rousseau e da quelli romanzeschi di Scott. Una vibrante pagina di decasillabi ed endecasillabi incastonata nella trama come una perla; il brano di poesia in prosa per antonomasia della Letteratura, a cui Manzoni affida il momento più lirico del romanzo rappresentato dal flusso struggente e silenzioso dei pensieri più intimi di Lucia in quel momento così difficile. La giovane, commossa, non esternava ma lasciava scorrere dentro di se’ le emozioni custodite in un cuore puro e semplice e vissute nello spazio quotidiano di un piccolo villaggio lombardo, mentre nel ducato di Milano dominato dagli spagnoli imperversava la peste; emozioni che da quel momento avrebbero avuto vita eterna.
Una pagina bianca vergata da Manzoni
con quei pensieri di Lucia mai pronunciati e divenuti universali, con il racconto di
vicende della Grande e Piccola Storia, cui si ispira il romanzo, e che si sublimano in questo brano del capitolo ottavo de “I Promessi Sposi”.
Una poeticità già annunciata nell’incipit dell'intero romanzo storico:
“Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutte a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni(...)”.
Una visione narrativa che colloca luoghi interiori nella Storia attraverso descrizioni intrise di sentimenti e affidate ad una sapiente scelta lessicale e sintattica. Un intarsio che si offre al lettore pregno di bellezza, armonia e sonorità.
L'Addio Monti ha in se' la potenza evocativa della trasfigurazione lirica del racconto di chi si appresta a vivere o di chi vive lontano dai luoghi natii, in un altrove che non è completamente distante ma che suscita sempre nostalgia. Una dimensione al confine che richiama anche le pagine di Corrado Alvaro (San Luca 1895 - Roma 1956) e quei semi della letteratura meridionalistica calabrese. Gente in Aspromonte è un affresco fedele del duro mondo pastorale in Aspromonte, "una vita alla quale occorre essere iniziati per capirla, esserci nati per amarla, tanto è piena come la contrada, di pietre e di spine”.
Un richiamo anche in questo caso idilliaco e profondamente rievocativo che non cede alla tentazione di eclissare il tono di denuncia di una condizione ingiusta e spietata. Uno sguardo severo ma anche appassionato, ad un Sud arcaico ma anche gravido dei prodromi delle grandi trasformazioni sociali ed economiche dell’epoca. Una durezza che non intacca la bellezza e la profondità di valori, figli di umiltà e fatica, che invece vivono in un sentimento di inesauribile nostalgia.
"Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro d’erbe rinforzato d’erbe selvatiche. Tutto intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande dei porci neri. (...). Allora vive la montagna, e da tutte le parti il cielo è seminato dei fuochi dei segni indicatori che là sono le case, là i santi coi loro volti di popolanti che non hanno più da faticare e stanno nel silenzio spazioso delle chiese (...)”.
Attraversano secoli, ispirazioni (manzoniane e alvariane e oltre) e memorie, i temi dell'esilio e della partenza dai luoghi natii quando la Storia e la Vita hanno il sopravvento. Un canto di nostalgia nato con l’Umanità e destinato a levarsi in ogni tempo e in ogni luogo, da sempre e per sempre.