Lo so, ci chiamavano terroni e facevano il tifo per i nostri vulcani gli amici lombardo-veneti. Ma era il tempo in cui il vento della secessione soffiava forte da quelle parti e il Sud era il parassita da seppellire sotto una colata incandescente. Ora che a passarsela male sono loro, costretti come appestati nelle “zone rosse” per via di quel virus altezzoso arrivato dalla Cina (addirittura con la corona sul capo) sarebbe troppo facile lasciarsi prendere dalla tentazione della rivalsa. Qualcuno ci ha già provato con i cartelli appesi sulle vetrine del proprio locale: “Ingresso vietato ai settentrionali”. Troppo facile. Per la prima volta ai meridionali si è invece presentata la straordinaria occasione di dimostrate agli amici delle ampolle sul Po che erano loro a sbagliarsi. E questo si può fare in un modo solo: aprendo i porti, gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, i musei, gli alberghi a chi un giorno potrà finalmente lasciare le zone dell'epidemia per tornare a muoversi liberamente sul territorio nazionale. Il primo invito a riprendersi la vita dovrebbe arrivare proprio da città come Napoli, Palermo, Catania, Reggio Calabria... Già, e il virus? Ma cosa vuoi che tema (come ha suggerito un video pieno di autoironia apparso sui social) chi mangia il panino ca meusa per strada, tra i vicoli di Palermo, o le cozze “a crudo” immunizzate solo da qualche goccia di limone tra quelli di Napoli? A noi, è il caso di dire, il virus sovrano arrivato dalla Cina ci fa un baffo.
Nessuno sa ancora quando finirà l'emergenza e quale sarà la sua evoluzione. Ma la prima impressione è che alla fine di tutto ne usciremo come un Paese guarito, almeno nell'anima. Succede quando l'esposizione diretta alla sofferenza, alle costrizioni personali, rende tutti più consapevoli dell'importanza delle piccole cose. Insomma, dovremmo ritrovarci tutti più umani, più “buoni”. Non credo, invece, nell'effetto contrario auspicato da altri: una sorta di razzismo di ritorno, da Sud a Nord, per restituire la ciambella agli amici della Lombardia e del Veneto: decenni di sfottò all'indirizzo di quelli che erano arrivati nelle case alveari, alla periferia di Milano, con i sogni pressati dentro le valigie di cartone. Che poi, a pensarci bene, “aprire ai settentrionali” oggi vuol dire aprire la porta di casa anche ai tanti terroni che vivono da quelle parti. Alcuni da sempre, come i più giovani. Quelli che il panino ca meusa per strada lo mangiavano i nonni e ora, magari, sognano che qualcuno attraversi la zona rossa presidiata dai militari per lasciarlo dietro la porta di casa.