di Natale Pace
«Il passato di tanti anni fa
alla fine del quarantanove
è il massacro del feudo Fragalà
sulle terre del Barone Breviglieri
Tre braccianti stroncati
col fuoco di moschetto
in difesa della proprietà.
Sono fatti di ieri»
Lucio Dalla – Passato –
dall’album “Il giorno aveva cinque teste”
Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo”. Scriveva Primo Levi.
E’ vero, guai a quel popolo che dimentica il proprio passato, perché per quanti sforzi farà per cancellare gli orrori, i guasti, gli errori. Quegli sforzi si tradurranno in alibi, giustificazioni, assoluzioni e allora gli orrori si camufferanno con altre vesti per ritornare.
Noi oggi vogliamo ricordare: facciamo qualche passo indietro.
Il socialista catanzarese Fausto Gullo, senza neppure aspettarselo, nel 1944 venne nominato Ministro dell’agricoltura nel Governo provvisorio Badoglio e, senza neppure volerlo, passò alla storia come ministro dei contadini. Fu fausto Gullo a proporre e fare approvare il DDL c.d. sulle “terre incolte”:
"Le associazioni di contadini, costituite in cooperative o in altri enti, possono ottenere la concessione di terreni di proprietà privata o di enti pubblici, che risultino incolti o insufficientemente coltivati, cioè tali da potervi praticare colture o metodi colturali più attivi ed intensivi, in relazione anche alle necessità della produzione agricola nazionale".
La Calabria fu la prima regione a organizzarsi per l’attuazione di una normativa rivoluzionaria per quanto semplice. Ci credettero davvero e decine di migliaia di contadini provenienti da tutti i paesi della regione, mossero per occupare latifondi incolti, serpai di spine e di rovi selvatici. Erano latifondi che i Borboni avevano assegnato ai Comuni per il cinquanta per cento ma che centinai di baroni Berlingeri avevano abusivamente arraffato per intero.
Il 29 ottobre di settantuno anni fa i Piani di Melissa furono festosamente invasi da uomini e donne convinti che la legge è legge e se la legge dice che i terreni non coltivati possono essere occupati dai contadini per renderli luoghi di produzione agricola, per farne farina e pane e frutta e generi di necessità, per tentare di risalire la china della miseria, per impedire ai padri di andarsene all’america a cercarlo quel pane che mancava, quel riscatto sociale che li vedeva schiavi e servi, lasciando le mogli-vedove bianche, i vecchi e i bambini nei paesi sempre più spopolati.
Ci credettero i braccianti di Melissa, credettero possibile l’impossibile: lo Stato non è solo una iperbolica illusione, può invece diventare una soluzione.
Ma in quello Stato, contava più un Berlingeri sazio di mille contadini affamati e lo Stato si manifestò, nei fondi di Fragalà di Melissa da giorni occupati e sui quali uomini e donne e vecchi e bambini avevano avviato la coltivazione, la messa a dimora di piante, zappa in mano e coltello da innesto in tasca, sputando saliva sui palmi per evitare i calli. Si manifestò nelle divise dei celerini che arrivavano da lontano, senza c he a nessuno venisse lontanamente in testa che potessero avere la benchè minima malintenzione.
Uomini,, donne, vecchi e bambini, laceri, sudati di sudore acquasanta, alla loro vista si disposero a semicerchio per accoglierlo lo Stato al grido di “Viva la polizia, viva i carabinieri della Repubblica!” In prima fila i bambini, in seconda le donne, poi i vecchi che non avevano voluto saperne di starsene a casa, dietro gli uomini ancora con le zappe in mano e il coltello da innesto in tasca, ancora sudati, ancora i palmi delle mani di saliva per impedire i calli.
I celerini, organizzati per andare alla guerra contro i malavitosi senza terra, eseguirono gli ordini dello Stato: raffiche di fucileria vennero sparate ad altezza d’uomo, dapprima con proiettili di legno (che però facevano male lo stesso, perché inattesi), poi, quando l’impaurita folla si sparse per i campi con proiettili di morte.
Francesco Nigro morì a 29 anni.
Giovanni Zito morì a 15 anni.
Angelina Mauro, morì a 23 anni, qualche giorno dopo avrebbe dovuto indossare l’abito da sposa.
Altri diciassette rimasero per terra, feriti.
Tutti sparati alle spalle.
Morirono e furono feriti nello stesso, identico modo dei muli e degli altri animali uccisi per ritorsione, per l’ultima, oltraggiosa punizione. Sparati come i barili ricolmi dell’acqua per abbeverare le piante, le galline i maiali.
Era un giorno uggioso, quel 29 ottobre 1949, non diverso da questi giorni di fine ottobre che un po’ piove e un po’ “stracqua” come dicono i napoletani. Aveva albeggiato come giorno festaiolo per i contadini di Melissa che a Fragalà da pochi giorni celebravano la gioia di avere un pezzo di terra da coltivare, di lavorare per vivere.
Pagine memorabili sono stati scritti per ricordare e celebrare quei tristi e tragici momenti della storia calabrese. Ho scelto le pagine finali “Marcia dei braccianti di Melissa” tratto da “Calabria grande e amara” di Leonida Repaci che ogni volta a rileggerle mi si blocca il cuore per l’emozione.
…..
L’arrivo nella selletta di Fragalà è salutato da grida di evviva e sventolio di bandiere. C’è il presentimento del sole nell’aria che ha perso il morso, e già si stende come una calma benda sulla ringhiera. Fatto cerchio intorno a sé, Peppe Campana s’inginocchia e bacia la terra. Il suo gesto è imitato da tutta la popolazione. Onna Cuncia e Grazia Palà, non potendo chinarsi, a causa del ventre gonfio, sfiorano la zolla con due dita che poi portano religiosamente alla bocca.
Ammassate, sotto un ulivo selvatico, dalle chiome amplissime e rade, le canestre delle cibarie con i barili dell’acqua e le fiasche del vino, si fa, per prima cosa, la chiama di coloro che guideranno gli aratri tirati dalle bestie. Poi sono chiamati quelli che costituiscono la prima ondata di zappatori sui terreni più accidentati e aridi. Si fanno dieci squadre al comando di un caporale, il quale distribuisce ai compagni gli attrezzi da lavoro. Son quasi tutti giovani dai venti ai venticinque anni, robusti malgrado le privazioni subite, ai quali un pezzo di pane nero e un pomodoro crudo bastano per spaccar macigni nel solleone. Nelle squadre entrano anche le giovani dell’età press’a poco dei maschi. Han zappato, si può dire, sin da bambine, e non è questo il momento di risparmiarsi. Maria Ferraro e Angelina Mauro non vogliono dividersi, e chiedono di zappare affiancate. La forza dell’una stimola la forza dell’altra. E poi, anche sudando con la zappa, si può parlar d’amore, di corredi, di matrimoni, ciò che diminuisce la fatica.
Si formano squadre miste di giovani e di anziani, al comando di uno di questi ultimi. Toccherebbe ai vecchi buttare il grano, ai giovani interrarlo, ma chi potrebbe impedire a Cosimo Malopinto, a Natale Cicala, a Cristo Surace, a Peppe Campana, d’infiggere la lama della zappa nel terreno come nel costato maledetto della Fame?
Si formano pure squadre miste di madri e di giovani, di anziani, ,di ragazzotti, al comando di un anziano o di un giovane, a turno.
Mentre stringon la zappa per dare il primo colpo, le madri non lascian con l’occhio i piccoli che han deposto su un rialzo del terreno, al di là del limite di aratura. Sul filo di quel limite, i bambini attorniati dai cani, stanno a guardare estatici invidiando i più grandicelli di loro, e affrettando col pensiero l’età maggiore.
Il lavoro già inizia alle sei del mattino e procede senza soste fino alle nove. E’ già pulita ed arata una gran fetta di terreno. I volti grondan sudore nel sole che si va facendo sempre più caldo, mentre batte sulle lame delle zappe come sui vetri. Alle nove si fa un breve alt, di una ventina di minuti, per mangiare un boccone di pane, un pugno di olive, magari un peperone, il tutto accompagnato da un sorso di quel buon vino di Melissa che ha il colore denso dell’amarena.
Riprende il lavoro che dura fino a mezzogiorno senza alcuna interruzione. La terra ripulita dagli arbusti, rimossa dagli aratri e dalle vanghe, comincia a vedersi, a figurare con le sue motte rosse e nere nel sole.
Si propone da qualcuno di accamparsi per la notte a Fragalà per non perdere tante ore di cammino tra Melissa e la terra occupata. La proposta è discussa mentre le donne ammassano nelle pentole e nei tegami allineati la buona roba portata dalle varie famiglie. Giacchè mancano i piatti e le forchette, a queste ultime si rimedia intagliando canne selvatiche e facendone spuntoni per infilare patate peperoni e il resto, che dei piatti si fa a meno, pescando con le canne appuntite direttamente nelle pentole e nei tegami.
La mangiata comincia e dura allegrissima per più di un’ora: tutti attaccano di buon appetito, anche Onna Cuncia che non ha più quello spasimo alla bocca dell’utero (la Madonna ha sentito le sue suppliche) anche Grazia Palà mangia per due, per lei e per il nascituro che le rolla dentro; anche Rosario Garre ha voluto, pur grave com’è, zappare anche lui, e ora si rifà le forze, mandando giù bocconi pieni che si trasformano subito in sangue, aiutati da sorsate lunghe di vino, che restituiscono il sole di cui l’uva si è cotta per arrossarsi e indolcirsi.
Proprio in questo momento dalla parte sud del versante, ecco avanzare gli uomini della celere fatti venire apposta dalla vicina Puglia. Sono centinaia e tutti armati di moschetto, col supplemento delle bombe nel tascapane. Avanzano come in guerra, piegati sulle gambe, aggobbiti più che possono per evitare la mitraglia dei braccianti di Melissa. I quali nel vederli, non si muovono, seguitano a zappare tranquilli. I celerini non si fidano di quella calma traditrice. Eccoli avanzare velocemente contro le squadre contadine che hanno osato incidere con la zappa l’eterno diritto del padronato. Sono ormai a duecento metri, sono ormai a cento metri, e i braccianti seguitano a colpire la brughiera con i loro fendenti precisi, scanditi da un ansito un po’ greve nella gola.
Tocca a Peppe Campana, il più vecchio di Melissa, alzare la testa. Guarda verso le schiere avanzanti e grida con voce solenne:
- Figliuoli, siate i benvenuti. Stiamo lavorando di lena, non fate peccato davanti a Cristo… -
Gli sorgono al fianco due giovani, Francesco Nigro e Giovanni Zito.
Urla il primo raccogliendo la voce con la mano:
- Siete anche voi figli del popolo. Vogliamo solo un po’ di pane. Non abbiamo armi… -
Urla l’altro:
- Questa terra abbandonata non servirà a nessuno… Per noi poveretti è la grazia di Dio… Siete i nostri fratelli… -
Non possono aggiungere altro. Al breve comando di un graduato i celerini aprono il fuoco. Zito e Nigro cadono nel loro sangue, stramazzando nei solchi che essi hanno scavato.
Resta illeso, tra il fischiare delle pallottole, Peppe Campana. Fattosi bianco come la cera grida alzando le braccia al cielo:
- Vigliacchi, uccidete chi non vi ha fatto niente. Siate maledetti. Voi e i vostri figli fino alla settima generazione… -
Proseguendo nell’azione di guerra i celerini prendon di mira altre squadre. Cade fulminata Angelina Mauro che si è precipitata per sollevare la bandiera nel sole. Stramazza colpita in fronte mentre introno a lei si torcono decine di feriti.
A questo punto i vendicatori si fermano per vedere quel che succede. Succede che gli scampati si buttano sui morti e sui morenti per piangerli o per soccorrerli. Questo spettacolo sveglia nei militi la vena ilare. Uno prende di mira un mulo che corre impazzito, trascinando per l’incolto il suo aratro senza morso. Un buon puntatore, il celerino, e il mulo cade freddato. Altri celerini pensano che l’acqua dei barili non sia adatta per lavare le ferite dei moribondi e il viso dei morti. Sparano sui barili dell’acqua che si aprono sul terreno come gusci di noci.
Nessun celerino pensa di far ritornare con un colpo di mitra nel buio da cui è arrivata, la creaturina di Grazia Palà. La madre è svenuta. Distesa per terra, seguitando a perder sangue dal grembo scoperto, pare già morta. Una giovinetta raccoglie la cosina al petto. Sembra la neonata un enorme insetto rosso da cui esca per miracolo un vagito umano.
Ecco, fino a qui lo scritto di Repaci.
I tentativi di riforma vennero in seguito vanificati e gli stessi decreti per “le terre ai contadini” voluti da Fausto Gullo furono svuotati dal suo successore, un certo Antonio Segni, ricco proprietario terriero e futuro Presidente della Repubblica.
Ma il sacrificio di quelle vite non fu vano e nella storia della Calabria e del movimento contadino, si pone a simbolo della voglia di riscatto del bracciantato, non più con il berretto in mano e signorsì, ma con l’aspirazione a un ideale di uguaglianza e dignità, di diritto al lavoro. Qualche ora dopo il Congresso Mondiale per la Pace, organizzato a Roma dal partito comunista tra il 28 e il 30 ottobre 1949 diede grande risalto internazionale ai fatti di Melissa.
Tutto questo bisogna ricordare, sempre. Altrimenti, il passato, nei suoi eventi più inumani e dolorosi, torna e ritorna a far male.