di Anna Foti
«……S’accendono le candele della sera/ si consumano per splendere/ si bruciano facilmente/ domandano acqua……». Parole leggere, anche quando greve è il senso, delle liriche di una giovane e sensibile penna dolcemente cullata dallo Stretto e profondamente inebriata di Fede. E a questi versi, che terminano con l’immagine fanciullesca in cui "l’anima gioca", è affidato il titolo della prima silloge poetica di Ilda Tripodi, insegnante di sostegno alla scuola primaria con la passione per il giornalismo e uno spirito poetico coltivato fin da giovanissima nel circolo Rhegium Julii. Con i caratteri di Iride, ha recentemente pubblicato la nuova silloge "La Facitrice", ma il suo cammino poetico è iniziato nel 2007, quando con i caratteri di Città del Sole edizioni pubblicò la sua prima raccolta di poesia intitolata appunto "L'anima gioca".
Leggerezza si respira tra i versi come frammenti di una storia universale che possiede molto da raccontare. Un’ariosità che restituisce le parole al vento perché le sollevi, le accompagni in questo viaggio in cui sono «i timoni a scegliere gli approdi». Quel vento, spesso richiamato nelle liriche quale elemento vitale che lambisce la terra, domina il fuoco e increspa le acque, può essere segnato e attraversato solo dalla poesia. Se dunque i timoni scelgono le mete, cosa resta da decidere. Forse ciò che è più importante: il cammino. Rimanere laddove si approda o intraprendere un nuovo viaggio.
È la stessa poetessa a chiudere una della sue pagine con l’intento, che è anche un desiderio coraggioso, di «vivere a caro prezzo», spendere ogni risorsa senza acquistare alcunché, amare. Senza riserve. Inutile dirlo se è amore. E lo è quando esiste pace e non vi è possesso; quando si sperimenta la difficoltà; quando si «confida nel silenzio» e nel fragore di una carezza; quando si dichiara al mondo intero dormiente e incosciente, nell’intimità di un canto di preghiera, legandosi ad esso con una sacra Promessa.
Un tessuto fitto di sensazioni, quello intarsiato da Ilda Tripodi, in cui il Mistero diventa ora Consolazione attraverso Maria raccolta nel suo cuore e nel dono della Maternità, ora Dolore attraverso «croci in cammino che rasentano i muri». Versi che raccontano sentimenti che non si nascondono dietro sogni incantati ma che parlano con forza ai cuori graziati che trovano «posto in un’unica parola (sempre)», timida anche nella scrittura.
Parlano con fiducia ai cuori affaticati che con ostinazione accolgono e cullano anche le spine, pur di non reciderle. «Chiunque Tu sia non posso fare a meno di cercarti con le aritmie al cuore». Cullare o recidere, accogliere un Amore troppo grande che ci sovrasta o respingerlo. Qualunque sia scelta, essa farà sgorgare comunque sangue in petto. Frutti ancora immaturi saranno colti e diverranno cuore tra le mani di chi non vorrà curarli e aiutarli a crescere. Tra le mani di chi ingenuamente penserà di poterli restituire alla Terra, gettandoli. Ma nulla che sia nato al sole può tornare in ombra, senza morire.
Così è la poesia ad essere salvifica e sanante. Essa allevia e trasforma le spine in foglie che si offrono generosamente, ricordando che siamo un soffio e siamo niente senza Amore, quell'amore ignorato sulla Croce o dimenticato sotto le ceneri della paura. Il ritmo incalzante di questo dialogo con un fantasma poetico, così definito da Walter Mauro nella prefazione alla silloge, è intriso di intimismo, mentre su e giù si muove l’altalena di slanci e abbandoni, ribellioni e conquiste, inquietudine e pace. Essi continuamente si inseguono tra le pagine, come nelle pieghe del cuore e della memoria vibrante di una vita tanto fulminea quanto intensa nel suo dipanarsi, nel suo chiederci Tutto, senza domandarsi Nulla.
Come «uno sciame di occhi sempre in volo» la Fede in Cristo, per mezzo del dono totalizzante di Maria, e il legame familiare, per mezzo di una mano che stringe e salva dal precipizio, attraversano la silloge, oltrepassano anche «l’ora dei gabbiani» e delle «onde affaticate» in cui «chi arriva prima, muore prima». Rimangono affidabili fino alla fine. Quella fine riservata a ciascuno di noi ma immancabilmente sublimata nella Pietà, laddove «il vento è erboso e conduce al Paradiso».