Di Natale Pace
In una saletta di Palazzo Marignoli una sera del 1946, sulla soglia della nuova Italia democratica e libera, si svolse una riunione importante per la storia del Premio Viareggio e della cultura Italiana.
Il celebre Premio fondato da Leonida Repaci, Carlo Salsa e Alberto Colantuoni sulla spiaggia di Viareggio nel 1929 è stato presieduto dallo scrittore di Palmi solo per i primi anni. Quando il regime fascista si rese conto del clamore mediatico che il premio suscitava nell’opinione pubblica, se ne appropriò e a presiederlo fu addirittura il genero del Duce, Galeazzo Ciano, per altro vecchio amico di Repaci con il quale ebbe uno storico duello all'arma bianca.
Fino al 1939 il Premio Viareggio di fatto fu asservito agli scopi politici del regime.
L'entrata in guerra dell'Italia interruppe naturalmente gli eventi letterari e anche il Viareggio.
“”Siamo nel ’39. La guerra batte alle porte. Il consesso dei soloni subisce una rivoluzione. Salsa e Colantuoni se ne vanno, Ferretti, Vergani, Bontempelli, Bonelli e altri effettuano un cambio della guardia corale. La giuria scende in campo con la seguente formazione: Marinetti presidente, il federale di Lucca, Amicucci, Civinini, Di Marzio, Gray, Melli, Pellizzi, Rispoli, Soffici, segretario Fontana. Dal Royal ci si trasferisce al Principe di Piemonte e si sparano fuochi artificiali sullo arenile del Marco Polo. Gli scrittori premiati sono avvertiti di indossare la sahariana e di salutare romanamente al momento di ricevere le buste con i bigliettoni dal ministro Alfieri. Salutano marzialmente in tre, ex aequo: Maria Bellonci che si presenta con un abito bianco burnus e un fiore candido tra i capelli, Arnaldo Fratelli ch’era riuscito a trovare una sahariana, in un negozio di via Quattro Fontane con la saracinesca già abbassata, per novanta lire, e Orio Vergani che esibisce una sahariana di taglio perfetto, da “inviato” di prima scelta”[1]
Dunque, quell'ultimo anno ante guerra venne assegnato al Lucrezia Borgia di Maria Bellonci, a Orio Vergani con Passo Profondo e a Arnaldo Fratelli con Clara tra i Lupi. Bompiani, Mondadori e Garzanti le case editrici che si divisero l'ex aequo.
Trascorsero sei lunghi anni, dal 1939 al 1945, nei quali l'Italia affrontò i dolori e i lutti della più grande e tragica guerra della sua storia.
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Nel 1946, sulle rovine di un Paese ancora in lacrime, Repaci ci riprova. Mette insieme i vecchi amici Salsa e Colantuoni, con De Benedetti, Leone Sbrana, Libero Bigiaretti e altri e fa ripartire il Premio con i soliti, storici problemi finanziari che Leonida e solo Leonida era in grado di risolvere.
Nella Saletta di Palazzo Merignoli, alla riunione di cui racconta Francesco Perri, Repaci era assente; forse perchè doveva essere fatta la proposta per assegnare a lui la Presidenza, o forse alla ricerca di finanziamenti.
Dunque apprendiamo da questo articolo che Francesco Perri scrisse nel 1961, che in quella riunione di Palazzo Merignoli fu proprio Perri a proporre Repaci alla Presidenza della giuria del nuovo Viareggio rinato dopo la guerra.
Ma Perri ricorda male per quanto riguarda i vincitori del 1946. Fine modulo
Quel primo Viareggio non più di regime venne infatti assegnato per la narrativa al giornalista e scrittore Silvio Micheli autore di Pane Duro, pubblicato da Einaudi e per la poesia al Canzoniere di Umberto Saba. Il quale, tra l’altro mal digerì di dover dividere il Premio, prendendosela a male con Repaci. Ed aveva ragione, perché proprio Leonida, piccato perché alcuni giornali avevano nell’edizione del pomeriggio anticipato la notizia della vittoria di Saba data per assodata da tutti, volle invece che il primo premio fosse assegnato anche al bravo Micheli.
Fu invece l’anno dopo, il 1947, che la Giuria volle dare un segnale di cambiamento, allontanandosi dalla narrativa di facile successo per attirare l’interesse della gente su testimonianze di vita e di pensiero. Ne fa le spese “La Romana” di Alberto Moravia, dato da tutti per vincitore certo e il Viareggio viene assegnato alle Lettere dal Carcere di Antonio Gramsci, aggirando anche l’ostacolo del Regolamento che voleva che fossero premiati soltanto autori viventi.
Del sardo, fondatore del partito comunista, dopo le “Lettere” e forse proprio per merito del clamore sollevato dall’assegnazione del Viareggio, verrà data alle stampe una edizione dei “Quaderni” uscita tra il 1948 e il 1951 curata da Palmiro Togliatti, tematica ed epurata di alcuni durissimi giudizi specialmente su Repaci e Perri. Queste stroncature emersero invece nella successiva edizione critica, e quindi completa, curata da Valentino Gerratana e dalla Fondazione Gramsci e stampata da Einaudi in quattro volumi nel 1975.
Se Repaci e Perri fossero stati a conoscenza di quei giudizi infelici e immeritati, forse nel 1947 il Premio Viareggio lo avrebbe vinto Moravia.
Riporto un interessante articolo del 1961 di Francesco Perri, ringraziando l’amico Andrea Perri per avercelo riproposto.
[1] Aldo Santini – Breve curiosa avventurosa storia del Premio Viareggio – Il Cavalluccio Marino ed. 1961
Il Viareggio – La Provincia Pavese 22 Settembre 1961 – Francesco Perri
Per far risorgere il premio Viareggio
Anno 1946, l’anno del referendum istituzionale, della Costituente, del primo e vero plebiscito in suffragio universale cui fu chiamato nella sua storia il popolo italiano.
La lotta politica sulle piazze si era placata, ma nei salotti romani, tra un ricevimento ai grossi ufficiali dell’esercito alleato e un discreto discorsetto di affari, l’aristocrazia nera e quella del denaro, combinano eccellenti matrimoni e gittano le basi della nuova politica democratica, che non vede l’ora di liberarsi dalla tutela dei molestissimi comitati di liberazione.
Una delle più vecchie ed accreditate verità che la politica non si fa con il sentimento, ma i sentimenti sono come i regali: cementano le buone amicizie.
Io ero a Roma da alcuni mesi, chiamato dal Pri alla direzione della “Voce Repubblicana”, per lasciar libero l’on. Pacciardi, che allora la dirigeva, ai suoi compiti della battaglia elettorale.
Veramente ero stato acclamato anch’io candidato alla Costituente dai miei cari e generosi calabresi, ma avevo dato tanta poca importanza e, potrei dire, credito a quella affrettata candidatura, che mi rifiutai energicamente anche di farmi vedere dai miei elettori. “Se deve essere fiasco lo sia, ma in mia assenza.
Salviamo almeno l’onore”. Ebbi torto, perché i miei elettori mi diedero trentaquattromila voti di lista, e fui battuto sulle preferenze per un esiguo numero di voti. Fu così che mi privai dell’onore di consegnare il mio nome alla Storia, come legislatore, ma anche del corruccio di vedere la mia creatura ora tanto mal ridotta!
Una mattina, se ben ricordo era già arrivato il luglio, mentre mi trovavo al mio tavolo di lavoro, in via dei Prefetti, fui chiamato al telefono dagli uffici della Società Autori. Era il vecchio e caro amico Carlo Salsa.
“Ti parlo — mi disse — anche a nome di Leonida Repaci bisogna far risorgere a tutti i costi il premio Viareggio. Ti attendiamo a Palazzo Marignoli questa sera dopo le nove. Discuteremo della cosa”.
Io (non dovrebbe essere necessario spiegare il perché) non tanto mi ero tenuto lontano per mia elezione da ogni genere di coteste competizioni, quanto ero stato tenuto lontano dai dominatori del tempo.
A proposito ricordo che una volta, essendo stato proposto come membro della giuria di un premio, che l’editore dall’Oglio voleva fondare alla insegna di una trattoria di via Pasquirolo a Milano, con la sola presenza del mio nome suscitai le furie di “Secolo Sera”, che allora si pubblicava in via Settala, e determinai le immediate dimissioni dalla giuria del povero Guido da Verona, che ignorava essere io un inquisito.
Con questi precedenti mi recai mal volentieri al convegno. Tuttavia ci andai e vi trovai Antonio Baldini, Libero Bigiaretti, Giacomo Debenedetti, il Salsa e Leone Sbrana, tutt’ora segretario perpetuo del premio. Repaci era assente.
Noi tutti non avevamo che la buona volontà da mettere sul tavolo e ce la mettemmo tutta. Fummo tutti d’accordo che il premio doveva rinascere dalle sue ceneri più vitale di prima e libero da ogni influenza politica, di scuola o di personalismi: un premio serio, insomma, una specie di Goncourt italiano, fondato per rivelare nuovi scrittori di merito, o consacrare la fama di scrittori già noti in occasione di un loro apporto nuovo di singolare importanza da segnalare alla attenzione degli altri paesi.
Per la presidenza, dopo una proposta un po’ scherzosa dell’accademico Baldini, fui io che proposi che venisse affidata plebiscitariamente a Leonida Repaci, che lo aveva fondato e sorretto coraggiosamente per tanti anni, e che insieme con lui venissero eletti come membri della giuria gli altri due fondatori: Carlo Salsa e Alberto Colantuoni, i quali erano stati col Repaci estromessi dal colpo di mano fascista, quando costoro se n’erano impadroniti.
Anche su questi punti fummo tutti d’accordo e da quello stesso anno si decise che il premio riprendesse la sua vita regolare. Al finanziamento ci avrebbe pensato, come sempre, Repaci, con le sue vaste amicizie, le simpatie che godeva dovunque e, perché non dirlo? con la sua simpatica prepotenza, alla quale non si può resistere.
Nessuno può dubitare dell’impegno, della buona fede e dell’entusiasmo con cui il mio amico Repaci si accinse al suo nuovo compito. Il Repaci, tutti lo sanno né egli fa mistero di ciò, uomo di impetuose passioni, ma anche di assoluta onestà spirituale.
Può sbagliarsi e persistere con caparbietà calabrese nell’assumere un impegno o nel difendere una causa, ma non per calcolo o debolezza e meno che mai per inganno. Quello che il Vangelo chiama il peccato contro lo spirito lontano dal suo temperamento e dalla sua integrità.
Se difende una causa perché la sente e per essa si farebbe ammazzare dieci volte piuttosto che abbandonarla. Perciò si poteva essere sicuri che le sue intenzioni, richiamando in vita il premio Viareggio, erano le migliori del mondo, ma purtroppo l’Italia quella ch’ è nessuno la potrà modificare finché non saranno modificati uno per uno gl’italiani, e più accuratamente di tutti gl’intellettuali, che sono i più deboli in fatto di carattere e di onestà.
Da noi, appena si trovano insieme tre persone, nasce una fazione, poi un partito e infine una camorra. Abbiamo tutti, per istinto, la vocazione al comando e all’intrigo più spiccata di quella alla probità.
Assegnare un premio, con coteste vocazioni, diventa un fatto personale, e non si difende più la letteratura ma le proprie predilezioni, o peggio, l’impegno di spuntarla.
Io, lasciata la direzione del giornale, lasciai anche Roma, ed anche per i miei nuovi impegni professionali, non presi parte ai lavori della giuria. Interpellato mandai da Genova, dove mi trovavo, la mia proposta. Proponevo che il premio fosse assegnato al “Golia” del Borgese, non solo perché era un bel libro, ma perché Borgese era un esule ed uno dei pochissimi professori universitari che si erano rifiutati di giurare.
La mia proposta non fu accolta, tuttavia quell’anno il premio fu dato bene, perché, se ben ricordo, fu dato alle “Lettere dal carcere” del Gramsci. Io non me ne occupai più e il mio nome sparì dalla lista dei Soloni, insalutato ospite. Ma di anno in anno vedevo la giuria impinguarsi di nomi nuovi, alcuni autorevoli, altri piccoli intriganti, vecchi arnesi della scuola di mistica fascista: ma gli uni e gli altri sempre quelli di tutte le giurie, che finiscono poi per essere arbitri non solo della borsa letteraria, ma anche del mercato librario.
E così abbiamo visti premiati a Viareggio poeti clandestini, mediocri libri di novelle ed altro materiale di valore molto discutibile.
Su quanto avvenne quest’anno e che determinò le dimissioni della intera giuria, non potrei dir nulla, perché non conosco nulla: vorrei solo qui fare un augurio e mandarlo al mio caro e generoso conterraneo ed amico Repaci, che ha sempre impegnato in questo premio tutto se’ stesso.
Che il premio, che abbiamo resuscitato con tanta buona volontà in una saletta di Palazzo Marignoli una sera del 1946, sulla soglia della nuova Italia democratica e libera, non muoia ma si consolidi e si redima.
Pochi giudici di grande autorità, che si assumano la responsabilità di quello che fanno, e sappiamo resistere alle suggestioni esterne ed anche interne. Sì, anche interne, perché nel premio Viareggio molto spesso anche in questo quindicennio, il pesce comincia a puzzare dalla testa.