di Anna Foti
«Le figure di Falcone e Borsellino, come di tanti altri servitori dello Stato caduti nella lotta al crimine organizzato, hanno fatto crescere nella società il senso del dovere e dell’impegno per contrastare la mafia e per far luce sulle sue tenebre, infondendo coraggio, suscitando rigetto e indignazione, provocando volontà di giustizia e di legalità. (...) I mafiosi nel progettare l’assassinio dei due magistrati, non avevano previsto un aspetto decisivo: quel che avrebbe provocato nella società. Nella loro mentalità criminale, non avevano previsto che l’insegnamento di Falcone e di Borsellino, il loro esempio, i valori da loro manifestati, sarebbero sopravvissuti, rafforzandosi, oltre la loro morte: diffondendosi, trasmettendo aspirazione di libertà dal crimine, radicandosi nella coscienza e nell’affetto delle tante persone oneste». Questi alcuni brani del discorso che, in questa giornata della Legalità, ha pronunciato il presidente della nostra Repubblica, Sergio Mattarella, tra le cui braccia morì per mano mafiosa, il fratello Piersanti, allora presidente della Regione Siciliana, nel 1980.
23 maggio 1992: il giudice Giovanni Falcone rimase ucciso sull’autostrada A29, all’altezza dello svincolo di Capaci, con la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Solo l’autista, Giuseppe Costanza, miracolosamente si salvò.
Quest’anno a Palermo nessuna sfilata, sulle gambe di migliaia di studenti provenienti da tutta Italia, di striscioni traboccanti di colori, vita e speranza. L’emergenza CovID - 19 ha imposto distanza in presenza ma non nel ricordo e nell’impegno. Così la Memoria non si è fermata e, nel segno di un esempio di integrità e coraggio da tramandare alle nuove generazioni, anche in questo ventottesimo anniversario della strage di Capaci, ancora richiama con forza e tenace un messaggio che non deve smettere di rifulgere: "Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini". Purché altri uomini scelgano di camminare liberi.
Coordinare le indagini per garantire un flusso costante e aggiornato di informazioni in modo da monitorare il più compiutamente possibile tutti i segmenti del complesso fenomeno mafioso, che all’ombra dell’ondata terroristica iniziava a divorare l'intero Paese. Dissero sì a questo metodo, valido ancora oggi come allora, Rocco Chinnici prima e, dopo il suo assassinio per mano della mafia il 29 luglio del 1983, il successore Antonino Caponnetto quando sostennero la creazione del pool antimafia che istruì il primo maxi processo contro Cosa Nostra della storia giudiziaria del nostro paese. Ne facevano parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino - ucciso 58 giorni dopo, il 19 luglio del 1992 nella strage di via D'Amelio, in cui furono uccisi anche gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Con loro, nel pool, anche Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Mentre i Corleonesi segnavano a Palermo la loro ascesa criminale e continuavano a versare sangue - nel 1979 il giudice Cesare Terranova e il poliziotto Boris Giuliano, nel 1980 il magistrato Gaetano Costa e il presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella (DC), fratello dell'attuale presidente della Repubblica Sergio, nel 1982 il prefetto di ferro Carlo Alberto dalla Chiesa e il sindacalista e deputato Pio La Torre (PDCI) - l’avvio del pool svelò equilibri ed intrecci criminali e pertanto chiamò altro sangue: quello di Antonio Montana e Ninni Cassarà, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, uccisi nell’estate del 1985.
Il primo pentito di Cosa Nostra era stato Leonardo Vitale nel 1973, ma il contributo di Tommaso Buscetta (il primo incontro tra Buscetta e Falcone avvenne nel 1984 in Brasile, prima del tentativo di suicidio e dell’estradizione in Italia), per quanto successivo, fu quello determinante.
Egli si dissociò da Cosa Nostra per come era diventata, pur senza rinnegare il suo passato. Fu questa collaborazione a consentire di compiere fondamentali passi in avanti nella lotta alla mafia condotta dal pool.
«Sembra che il regista abbia scavato a fondo nella psicologia del personaggio — dice Maria Falcone commentando il film di Marco Bellocchio “Il Traditore”, vincitore di sei David di Donatello, su Corriere.it — trovando la chiave di volta: Buscetta decide di dissociarsi dalla mafia per vendicarsi di chi gli ha ammazzato figli, fratelli e cognati, e infatti dice prima a Badalamenti e poi a Contorno, intenzionati a rispondere ai Corleonesi con le armi, che ormai Cosa nostra è finita, si può solo parlare per salvarsi. Al tempo stesso però rivendica il proprio passato, provando a proteggere il mito della ‘mafia buona che non uccideva i bambini, per dare una giustificazione a ciò che lui stesso era stato. Ma noi sappiamo che la mafia buona non esiste ».
Sempre Maria Falcone in questa occasione ha ricordato che suo fratello Giovanni : «Sosteneva che anche dietro un uomo che s’è macchiato dei peggiori delitti ci può essere un barlume di dignità».
Una trasposizione cinematografica che ha particolarmente convinto, aggiudicandosi la statuetta più ambita del Cinema italiano come miglior Film, per la regia e la sceneggiatura originale (Marco Bellocchio), per il migliore attore protagonista (PierFrancesco Favino nel ruolo di Tommaso Buscetta) e il migliore attore non protagonista (Luigi Lo Cascio nel ruolo di Salvatore Contorno), per il miglior montaggio (Francesca Calvelli).
Il cinema ha raccontato anche un altro spaccato inedito e cruciale della vita di Giovanni Falcone (Massimo Popolizio), Paolo Borsellino (Beppe Fiorello) e delle loro famiglie. È stata la regista e sceneggiatrice romana Fiorella Infascelli, nel film “Era d’estate”, scritto con Antonio Leotti e prodotto da Domenico Procacci e Rai Cinema. Il film, proiettato in anteprima nazionale a Reggio Calabria nel 2016 su impulso del circolo del cinema Charlie Chaplin e di Area Reggio Calabria dell’associazione nazionale Magistrati, è incentrato sul racconto della quotidianità stravolta dopo il trasferimento nell’isola bunker di Asinara (comune di Porto Torres e provincia di Sassari, dal 2002 Parco nazionale ossia area protetta) in Sardegna, dei giudici e della loro famiglie. Un esilio necessario per proteggerli controllarli a vista via terra e via mare. Lì era ancora attivo il carcere dismesso nel 1998. Era l’estate del 1985 ed erano appena stati uccisi i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà; l’ordine di trasferimento era stato determinato da minacce di morte per i due giudici ed era stato disposto dal capo del pool antimafia palermitano, Antonino Caponnetto, succeduto all’ideatore Rocco Chinnici, anche lui ucciso da Cosa Nostra nel luglio del 1983.
Il film ha svelato l’umanità di persone alla quali si è abituati a guardare solo come eroi che si destreggiano tra le carte processuali, che ragionano e intuiscono, che parlano con i pentiti, che rischiano la vita. In quella stessa vita abitano anche gli affetti e le angosce comuni a tutti, universali nella loro essenza. Il film rivela così anche l’esistenza di momenti preziosi di libertà dal pericolo e di occasioni di nuova linfa per una lotta per loro irrinunciabile. In quel ritorno silenzioso al chiaro di luna in un mare nero e argento, che chiude il film, si apre quel futuro che non sa solo di giustizia e riscatto: all’orizzonte c’era il maxi processo ma c’erano anche isolamento, paura e tenacia, sangue, violenza, morte e riscatto.
«L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza», diceva Giovanni Falcone.
Un prezioso lavoro avviato durante quell’esilio dopo il quale, tuttavia, Giovanni Falcone, venne trasferito a Roma, nominato direttore generale degli Affari Penali e quando nel dicembre 1986, l’amico e collega Paolo Borsellino fu nominato Procuratore della Repubblica di Marsala.
Quello fu il prologo di una pagina di storia giudiziaria rimasta memorabile, quella del maxiprocesso di Palermo per crimini di mafia (febbraio 1986 – gennaio 1992), il processo penale più imponente di sempre, con 460 imputati, 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione comminato, quasi tutti confermati in Cassazione. Un processo che segnò e la storia giudiziaria italiana e non solo, nella Palermo amministrata dal sindaco Leoluca Orlando, oggi primo cittadino del capoluogo siciliano al suo terzo mandato.
Un milione di fogli processuali e di carte raccolti da Giovanni Falcone che intuì, quella che oggi è preziosa e assodata prassi investigativa, di seguire i flussi finanziari della mafia, destinata a diventare holding economica del crimine. Tutto questo non ebbe, tuttavia, seguito quando a lui fu preferito Antonino Meli alla guida del pool di Palermo e a deciderlo fu a maggioranza il CSM. All’epoca si era pronunciato a favore di Falcone, Giancarlo Caselli, già procuratore di Torino, alla guida anche della procura di Palermo proprio tra il 1993 ed il 1999.
Giovanni Falcone presenziò a Reggio Calabria per il giorno delle esequie di Antonino Scopelliti. Già un anno prima delle stragi, il sangue dei giusti veniva infatti fatto scorrere. Era il 9 agosto 1991 quando, in vacanza nella sua Calabria, il magistrato Antonino Scopelliti rimase vittima di un brutale agguato a Piale, Villa San Giovanni provincia di Reggio Calabria. Era a bordo dell’auto e stava tornando a casa nella sua Campo Calabro rimase vittima di un agguato mortale. Scopelliti era il sostituto procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione e quell’estate lavorava infatti al rigetto dei ricorsi avverso la condanne in appello presentati, dinnanzi alla corte di Cassazione, dagli imputati nel maxiprocesso di Palermo. Resta il convincimento che si sia trattato di un agguato, frutto di un accordo tra cosa nostra e ndrangheta, che in realtà non ha mai avuto un volto né il crisma di verità giudiziaria definitiva.
Il destino fu diverso per i processi delle due stragi di Capaci e via D’Amelio. Seguirono processi che portarono a decine di condanne all’ergastolo tra le quali quella del mandante Totò Riina - morto in carcere nel 2017 mentre scontava numerosi ergastoli per altrettanti omicidi tra i quali anche quello del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella e del capo del pool antimafia Rocco Chinnici. Tra i condannati all’ergastolo anche Bernardo Brusca - uomo di fiducia di Riina al quale fu affidato il telecomando a distanza che fece esplodere il tritolo nella strage di Capaci e responsabile con Riina, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro dell’atroce e spietato scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e ucciso per la collaborazione del padre Santino, nel 1996 - Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano, Salvatore e Giuseppe Montalto, Bernardo Provenzano, Benedetto Santapaola e Giuseppe Madonia.
Seguì anche un’indagine della procura di Caltanissetta per svelare i cosiddetti mandanti occulti - nel 1998 vennero iscritti al registro degli indagati anche Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri - poi risoltasi con un’archiviazione dieci anni dopo, nel 2013.
Molte dichiarazioni raccolte dai pentiti in occasioni delle indagini condotte dopo le stragi svelarono la cosiddetta trattativa Stato - Mafia che dopo il Maxiprocesso ebbe luogo con lo scopo di porre fine alle stragi mafiose, in cambio di un'attenuazione della lotta alla mafia stessa da parte dello Stato italiano.
Nel 2018 in primo grado sono stati condannati con Leoluca Bagarella, Mario Mori, Antonio Subranni, Marcello Dell’Utri, Antonino Cinà, Giuseppe De Donno. Reati prescritti per Giovanni Brusca e assolto Nicola Mancino.
Oggi la sfida contro le mafie è ancora aperta in Italia e in tutto il mondo. Gli strumenti con cui si combatte - la Direzione Nazionale Antimafia (organo della Procura Generale presso la Corte di Cassazione istituito proprio nel 1991 e guidato dal Procuratore nazionale Antimafia), le DDA (procure della Repubblica presso i tribunali dei capoluoghi di distretto di corte d’appello), l’aggressione alla dimensione economica criminale della mafia, poi compiutasi con l’intuizione di Pio La torre della confisca dei beni - sono il frutto di quell’incipit che porta il nome di coloro che anche nella Memoria, come nel destino spietato, sono inscindibili: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro scorte. Ma la magistratura e le forze dell’ordine non bastano.
Il lavoro è anche della collettività: non abdichiamo e non deleghiamo. Assumiamoci la responsabilità di ogni nostro comportamento: anche quello apparentemente più banale, rivela da che parte stiamo. Questo è il modo migliore di cui disponiamo per non dimenticare e per continuare l’opera di Libertà che Falcone e Borsellino ci hanno fiduciosamente lasciato in consegna. Siamo chiamati, in ogni istante della nostra vita, ad essere meritevoli di quella fiducia e del loro sacrificio, sentendoci anche noi forze migliori delle nostre Istituzioni.
«La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni».
Giovanni Falcone