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di Anna Foti

Cappotto pendulo e cappello inclinato sul capo, cravatta con righe oblique, occhiali con gli angoli smussati e quella valigia stretta nella mano destra, così lo si ricorda e così viene raffigurato nel monumento scultoreo eretto

alla sua memoria, nel comune natio in Calabria, Melicuccà. Il poeta Lorenzo Calogero, viaggiatore in cerca di parole nel tempo - «Io sono uno strano mendicante che chiede amore e parole, sono un solitario emigrante verso le terre della luce e del sole» (“Angelo della mattina" - "25 poesie") - si sentiva frantumato nella morsa della vita, dentro la quale sembrava sfuggirgli continuamente quel destino di poeta che disperatamente lo chiamava a se’.

Penna di liriche vibranti, fu poeta apprezzato soltanto dopo la morte, complici l’isolamento dovuto alla geografia fisica del luogo natio e a quella interiore della sua anima inquieta, che molta disponibilità all’ascolto richiedeva.

«Frammenti di vita / buttati così a caso / sulle liquide onde / fra terreni disseminati di pietra/ sono le mie poesie (…) ». Rifiutato dalle case editrici e ignorato dalla critica in vita, Lorenzo Giovanni Antonio Calogero, terzo di sei figli, medico con la vocazione poetica, nacque e morì a Melicuccà, oggi nel territorio metropolitano di Reggio Calabria, il 28 maggio 1910 (110 anni fa) ed il 22 marzo 1961, giorno in cui si tolse la vita (il suo corpo fu trovato dopo tre giorni). Tra il suo lasciare il luogo natio per studiare a Bagnara, a Reggio Calabria e a Napoli, e il suo tornare a casa vinto dalla nostalgia per la madre, si dipanava il suo esistere, sotteso all’opera ininterrotta della sua poesia. Un moto perpetuo di parole pesanti e pensanti mosso da istinti ponderosi e poderosi che lo spingevano a tornare ai suoi luoghi, quando era lontano, e a fuggire da essi, quando lì si trovava.

Un’inquietudine irriducibile per la quale le parole non erano mai abbastanza. Il poeta per antonomasia che per le parole e la loro ricerca nutrì un amore sconfinato.

Negletto e spaurito, Calogero si sentiva un pessimo uomo, capace di un unico meraviglioso dono per uomini: la Poesia. Grande nella sua fragilità, che instancabilmente esplorava, scrivendo con urgenza di amore, morte ed eternità come fossero impalpabili, inscindibili e perennemente inafferrabili, Calogero cercava e scriveva, scriveva e cercava in un incessante andare per anni oscuri, senza amici e senza complici.

Solo dal decennio successivo alla sua morte, egli cominciò ad essere conosciuto. Celebre l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera a firma di Eugenio Montale, vincitore nel 1975 del Nobel per la Letteratura. “Accostarsi alla sua poesia è un’ardua impresa perché in lui la parola è del tutto spogliata del suo contenuto semantico e ridotta a semplice segno(...). Fu dotato di uno reale temperamento poetico ed è quindi da escludersi un abbaglio da parte di coloro che oggi vogliono rendergli l’onore che gli fu negato in vita. Calogero ha lavorato per molti anni in un incrocio di tendenze, rifiutandole tutte per non impoverirsi, interamente posseduto dal demone dell’analogia, della similitudine (...). Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere, si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti, non tanto espressioni quanto emanazioni del suo ribollente mondo interiore. Certo se scoprissimo la chiave di quell’intrico di rapporti ben altra evidenza assumerebbe una poesia in cui è, sicuramente, «un’idea dell’essere come tremore, terrore, catena di eventi fulminei, rotti, casuali» e sostanzialmente «più una fisiologia che una calligrafia». Nelle sue libere lasse (lontane da quell’alta marea verbale che fu di Whitman e di alcuni futuristi) Calogero scompone in emistichi il nostro verso tradizionale e lo ricompone in nuovi modi, con frequenti ipermetrie e non rare rime, piuttosto acciuffate a volo che necessarie. (...)Egli non scriveva la sua poesia, la viveva in un modo del tutto fisico e per lui l’attesa era qualcosa di inimmaginabile. Se avesse potuto distaccarsi almeno per un attimo dai suoi versi, sarebbe ancora vivo", scrisse Eugenio Montale.

Lorenzo Calogero fu molto legato alla madre, Maria Giuseppa Cardone con cui, durante la sua vita travagliata, intrattenne una lunga ed intensa corrispondenza. Completati gli studi a Reggio Calabria, iniziò l’università di Medicina a Napoli per poi tornare, per motivi economici in Calabria dove studiò ma soprattutto lesse e scrisse poesie. Questo fu il periodo delle raccolte "25 Poesie", "Poco suono" e "Parole del Tempo".

Gli anni Trenta furono appunto gli anni della prima pubblicazione a sue spese (“Poco suono”, edizione Centauro, Milano, 1936), gli anni dell’abilitazione ad una professione medica che “vive come se scrivesse versi” e che esercitò anche in Calabria, gli anni dei malesseri sempre più frequenti culminati nel 1942 con il primo tentativo di suicidio.

«Forse non saprai mai/ il nero mistero del mondo/le sue vie impervie e tenebrose/i suoi mille passaggi disumani/fermati sotto le unghie dell’essere» ("Parla uno spirito" dalla Raccolta "Poco Suono"). Una poesia carica di visioni, di echi musicali, di immagini folgoranti che ben si è prestata anche alla trasposizione teatrale, ad una moderna dimensione multimediale. Liriche complesse, mai lineari, dotate di una sintassi creativa e, dunque, anch’essa innovativa. Il regista, drammaturgo e poeta, Carmelo Bene, lo aveva definito il “più grande italiano poeta nel Novecento”.

Gli anni Quaranta furono quelli della fidanzamento con la studentessa di Reggio Calabria, Graziella, poi rotto definitivamente, nonostante i suoi tentativi per ricucire. Continuò a scrivere e ad interpellare le case editrici, ma senza successo. Scrisse in pochi giorni “Avaro nel tuo pensiero”, rimasto inedito fino al 2014, quando fu pubblicato con i caratteri della Donzelli, nell’ambito del progetto “Recupero del patrimonio letterario di Lorenzo Calogero”, finanziato con il Por Calabria e realizzato dal dipartimento di Filologia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria.

Avaro nel tuo pensiero

«Se, da diverse parti, sottintesi i segni

divengono quel che sogni e non sai

più quale curva lena sia rosea una linea

tesa, quale vergine sia pura e ferma ora una stella

e, senza percorso, più sopra un pensiero,

ti sporgi nella medesima ora

che improvvisa si rinnovella

e ti dette e nudità del sogno,

l’anima sempre uguale era senza mistero

o l’anima puoi perdere alle radici

o la semplice nudità era un assolo.

ma perché da parti uguali erme divise

non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri

sopra i tuoi fiori nella medesima

aridità che ora scintilla essa balena

e ti accorgi di essere più solo.

Avaro nel tuo pensiero,

la stessa sostanza arida t’invischia

solo per tuo diletto.

Erme cinte di rose

appaiono già tutte le cose»

Nel 1955 da Siena Calogero fece ritorno nella natia Melicuccà. Le nevrosi peggioravano e così andò incontro al primo ricovero a Villa Nuccia, struttura sita a Gagliano di Catanzaro. Nel 1956 il secondo ricovero, la morte della madre (il 9 settembre) e un secondo tentativo di suicidio. Un anno davvero funestato dal dolore che precedette l’assegnazione del premio Villa San Giovanni nel 1957.

Scrisse ancora incessantemente, senza trovare sponda per pubblicare. Ma questi furono anche gli anni di contatti importanti con intellettuali, come il critico letterario e giornalista Giancarlo Vigorelli e il poeta e scrittore Carlo Betocchi, con cui intessé una importante corrispondenza, e dell’amicizia con il poeta, saggista e critico d’arte, Leonardo Sinisgalli, suo primo lungimirante estimatore e autore della prefazione della raccolta "Come in dittici” (edizione Maia, Siena, 1956): “Di che qualità sia quest’opera ve lo dirò subito. È un groviglio insensato. Si ha l’impressione che il poeta restituisca nelle sue parole una realtà che vive, muore e rinasce in un soffio. Riesce a dare il senso del moto, di un murmure, di un’animazione, di un brivido, la vita labilissima raccolta in una traccia di parole. È un groviglio qualche volta insensato come un arbusto che geme al vento o il lampo incerto che riusciamo a ritrovare nel brulichio della memoria. Una poesia dentro cui l’autore sembra sepolto, un folto intrico da cui a tratti scaturisce un richiamo irresistibile. Non resta una storia, una figura, un oggetto, ma solo il fluire di una vena, l’incanto di una voce".


Implicitamente sottintesi i segni

«Implicitamente sottintesi i segni —

non è lontano il giorno — scavarono,

coi loro lunghi occhi di baleni,

un lampo nero ch’era di odio.

Allodole erano prigioniere,

e, di rimpetto ai giorni,

col suono calmo di una lievità

di puri spazi di onde,

che vedi crescere a stento, si spezza

una dolcezza limpida

nei tuoi occhi, densa, che scolori.

Se ti trafugano i morti sotterra,

se m’interroghi e sorridi poi,

non so se piú presaga

piú lunga di te sia morte

o la quiete: questa che viene

ormai a rivivere

nel raggio dell’altrui dolore»

Dell’ultimo decennio sono alcune pubblicazioni di sue liriche, come la raccolta “Parole del tempo” (Donzelli 2010) a cura di Mario Sechi e Vito Teti, antropologo e responsabile scientifico del progetto Calogero promosso dall’Università della Calabria in collaborazione con la Regione. "Lorenzo Calogero ha attraversato la poesia è la cultura del Novecento quasi come un’ombra, uno spettro, come se il corpo bloccato, nervoso, trasparente fosse un segno della sua vicenda, di quei sinistri venti di sfortuna che hanno fatto in modo che il suo nome diventasse, come egli stesso ha scritto nei versi della raccolta ‘Sogno più non ricordo’, una «luminosa discordanza che si perde e passa».

La sua esistenza è «acclimatata ad altra lontananza», quella della poesia per la quale sacrifica tutto, ingaggia una dura e tenace lotta con il suo corpo e con la sua mente. Il corpo diventa un verso, scrittura, poesia. I quaderni e i fogli che riempie scrivendo in maniera frenetica e ininterrotta, riflettono la dilatazione della sua immagine, della sua anima errante”, ha scritto Vito Teti nell’introduzione al volume.

La parola di Lorenzo Calogero si presenta al lettore ancora prima di essere tale, attraverso quella verità autentica che precede la scrittura e l’espressione. Una poesia piena e peculiare, definita un caso quando, pubblicata postuma, attirò l’attenzione anche della stampa straniera e gli valse il nome di Rimbaud italiano. Un poeta con il talento di estrarre da un groviglio insensato il senso di tutto e di restituire in parole la realtà effimera e il soffio in cui essa consiste. Incapace di vivere nella vita, fece della poesia un fatto vitale, il suo atto vitale e compulsivo, come un rito sacro e irrinunciabile in cui le parole sono carne e la poesia corpo. Un intreccio inestricabile, in cui il suo essere è la sua poesia e i suoi versi possiedono corporeità.

Si tratta di pubblicazioni preziose che unitamente a quella curata da Vito Teti per Rubbettino “L’Ombra assidua del tuo pensiero (1910 – 2010)” e a quella curata da Mario Sechi e Caterina Verbaro che con Donzelli, nel 2014, finalmente ha reso nota la raccolta rimasta fino ad allora inedita - nonostante le segnalazioni di autorevoli critici - “Avaro nel tuo pensiero”, arricchiscono l’eredità fruibile del poeta che in vita e a sue spese aveva già pubblicato: “Poco Suono” (1933-1935, edito nel 1936 da Centauro Milano), “Parole del Tempo” (1932-1935, edito nel 1956 da Maia Siena), “Ma Questo …”, (1950-1954, edito nel 1955 da Maia Siena), “Come in Dittici” (1954-1956, edito nel 1956 da Maia Siena) con la prefazione di Leonardo Sinisgalli, “Sogno piú non ricordo” (1956-1958), ed anche dei “Quaderni di Villa Nuccia”, (1959-1960), che raccolgono le ultime liriche scritte proprio a Villa Nuccia. La più alta produzione poetica che raccoglie queste ultime ed altre, è rappresentata dalla pubblicazione in due volumi postuma, nel 1962 e nel 1966, delle sue Opere Poetiche (editori Lerici) a cura dell’editore, scrittore e autore televisivo, Roberto Lerici, e del critico letterario, Giuseppe Tedeschi. “Egli ha dato questa poesia, ha condotto una vita indicibile, non si potevano non documentarle. Non tocca a me dire qui se la sua poesia sia sublime e perfetta o facile e naturale. L'ha fatta, non ha voluto fare altro. Esiste, tecnicamente alta, solenne liricamente. Può rivelare la conoscenza di tutti i testi e le tematiche, vi si possono scoprire tutte le sorgenti (l'ermetismo principalmente, di cui egli è poi uno dei più alti figli)...Alla base esisteranno tutti gli choc che si vogliono, le inibizioni, le nevrosi, gli insulti, le sconfitte, l'amore mancato. È intorno a esso che è nata la iterata è inquietante tessitura di questi versi", scrisse Giuseppe Tedeschi nella sua introduzione all’opera.


Ne stigmatizzò l’importanza anche il saggista palmese Leonida Repaci: “Il più alto di questi poeti è Calogero, una recente scoperta di Sinisgalli e di Tedeschi, sulla quale sta convergendo l'attenzione di chi tiene in mano la bilancia letteraria”.

Tanto tuttavia resta ancora da conoscere e da pubblicare di un poeta che questa Calabria e il panorama poetico del Novecento devono riconoscere come un figlio ingiustificatamente tenuto nascosto.

Così tra le «Povere cose miracolose che sono le cose dei poeti», come scritto dal poeta e riportato sulla sua lapide, si snodò la sua esistenza segnata dalla poesia come dalla patofobia che lo relegò nella casa di cura catanzarese Villa Nuccia, anche nell’ultimo periodo della sua vita in cui continuò a scrivere assiduamente liriche.

Un’esistenza segnata dalla ricerca di una voce negata e dall’oblio e, solo oggi nella memoria, attraversata dalla rinascita che vede adesso impegnati tanti attori, istituzionali e non, nella riscoperta della sua straordinaria produzione poetica.

Tra i progetti più significativi quello finalizzato alla creazione di una casa Museo dove esporre le opere di Lorenzo Calogero, lì dove è vissuto e morto a Melicuccà, quello di “Recupero del patrimonio letterario di Lorenzo Calogero”, finanziato con il Por Calabria e realizzato dal dipartimento di Filologia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, e quello ambizioso di una pubblicazione dell’opera omnia.

Nel 2010 una importante giornata di studio è stata dedicata Lorenzo Calogero nella cornice dell’Università della Calabria. Il

Convegno ha rappresentato un importante momento del sopra citato progetto “Recupero del patrimonio letterario di Lorenzo Calogero” finanziato con il Por Calabria e realizzato dal dipartimento di Filologia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria diretto dal professore Vito Teti, in collaborazione con l’assessorato regionale alla Cultura e alla Pubblica Istruzione e con l’apporto e la condivisione degli eredi di Lorenzo Calogero, della Casa della Cultura di Palmi, del Comune di Melicuccà. Il convegno era stato organizzato dal dipartimento di Filologia dell’Unical a conclusione delle operazioni di trasferimento, schedatura analatica, catalogazione informatica, digitalizzazione degli 804 quaderni inediti di Calogero, prima custoditi presso la Casa della Cultura di Palmi.

Allegato al volume edito da Rubbettino, "L’ombra assidua della poesia. Lorenzo Calogero 1910-2010", vi è anche un documento video (https://youtu.be/3mdjaXTUqfw ) in cui sono raccolte le relazioni del Convegno e le testimonianze dei nipoti Mario e Lucia, con la partecipazione dell’attore calabrese Nino Racco. Il volume è stato curato da Vito Teti. “La critica letteraria, nazionale regionale, salvo importanti e qualificate eccezioni, ha sempre tardato e rinviato la conoscenza di Calogero. L’indisponibilità dei suoi quaderni, delle sue carte, dei suoi taccuini, delle sue lettere, dei suoi appunti, dei suoi disegni, delle sue riflessioni - dalla sua morte ad oggi - ha alimentato anche leggenda del poeta incompreso, grande e sconosciuto. I quaderni di Calogero, i suoi inediti sono stati l’ossessione, l’apprensione, il sogno di critici, studiosi, intellettuali, giovani. I quaderni venivano citati come una sorta di tesoro non aperto, nascosto, e tra le élites intellettuali e locali prosperava una sorta di lamentela e di assegnazione di responsabilità agli altri (come capita in Calabria), senza, peraltro, cercare (salvo rare eccezioni) di occuparsi concretamente della questione. Spesso l’indisponibilità del corpus poetico di Calogero è stata pretesto per un silenzio durato molti anni e alibi per ulteriori rimozioni.

È per questo che le fasi di recupero, salvaguardia e tutela dei quaderni, operazioni preliminari per la loro valorizzazione, portate avanti dal personale del dipartimento di Filologia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, costituiscono un evento culturale eccezionale per la comunità scientifica (e non

solo) nazionale e calabrese (...). Non si può, certo, colmare un ritardo cinquantennale in pochi mesi e non sono più consentite operazioni frettolose, ma bisogna procedere in maniera incisiva, continuata, mirata (...)”, ha scritto Vito Teti nella prefazione.

Il Dipartimento di Filologia ha già condotto delle importanti attività di studio, valorizzazione, informatizzazione ed altre sono ancora necessarie, dunque, per valorizzare pienamente questo grande poeta calabrese del Novecento di cui molto resta ancora inedito e sconosciuto.

Anche a Reggio Calabria da decenni il circolo culturale Rhegium Julii intitola a Lorenzo Calogero, il premio nazionale di Poesia, nel 2019 assegnato a Franco Arminio.

Nel 2015 ha conquistato le prime pagine di due prestigiose riviste internazionali di poesia contemporanea quali “The Bitter Oleander” di New York, grazie allo studio che lo scrittore e traduttore John Taylor ha condotto sul poeta calabrese. Ne diede notizia il gruppo sperimentale "Villa Nuccia" di stanza a Firenze, animata da artisti calabresi impegnati nella riscoperta e nella valorizzazione dei versi di Lorenzo Calogero.

Una presentazione del poeta e cinque liriche tradotte da Valérie Brantôme, sono state altresì pubblicate sulla rivista letteraria francese “La Soeur de l’Ange”, sempre nel 2015.

Chiedeva di non essere sotterrato vivo nel biglietto trovato accanto al suo corpo in casa a Melicuccà, il 25 marzo 1961. Ad essere stato sotterrato è stato solo il suo corpo già esanime e ad essere ancora viva, sempre più viva, dopo anni di imperdonabile oblio, è la sua poesia. Dunque, un soffio di quiete potrebbe averlo lambito.

‘Con la sua poesia, ci ha diminuiti tutti’, scriveva Giuseppe Ungaretti, ma quanti hanno conosciuto e amato le liriche calogeriane hanno in molti modi, invece, testimoniato come e quanto Lorenzo Calogero, con la sua poesia, ci abbia illuminato.