di Anna Foti
«In un mondo che immagina il Natale occasione per costosi regali o lauti banchetti, io continuo a viverlo con sentimenti assai diversi. Ostinatamente ritorno alla mia infanzia felice e ai canti notturni della novena che rendeva l’attesa della venuta del Messia carica di speranza e di gioia interiore. Nell’antica chiesa di Brancaleone Superiore al mattino non c’era un orario fisso. Il sagrestano quando aveva terminato il suo primo sonno, verso le tre o le quattro del mattino, invitava il popolo col tocco di tre campane che racchiudevano novecento anni di storia e facevano arrivare una voce imperiosa e tonante, nel silenzio della notte, ai paesi vicini, sorpresi ogni volta con un cuore nuovo. Dalle campagne, dalle frazioni vicine accorrevano pastori e contadini, signorotti e guardiani, vecchi e giovani e in un baleno la chiesa era strapiena di gente infreddolita e digiuna dalla mezzanotte per potersi accostare all’Eucarestia: allora anche l’acqua rompeva il digiuno. Una ciurma di bambini sedeva intorno all’altare cinquecentesco inseguendo nei mosaici di marmi multicolori fantasmi e fantasie; la porticina in legno del Tabernacolo non ci stancavamo mai di guardarla: il Buon Pastore aveva sulle spalle un pecorella stanca e spaurita e ci trasmetteva una dolcezza inesprimibile. Il parroco grecanico nella sua cadenza della Bovesia iniziava le suppliche a Gesù Bambino: ”Venite, Gesù Bambino, nell’anima mia e purgatela, nei pensieri miei e dirigeteli. Gesù Bambino, datemi le vostre sante virtù”. Una breve pausa e mia madre e la signorina Teresa intonavano subito “Quandu nostra Madonna caminava, o chi cori cuntentu chi ‘ndavia …”.
Il ritmo era quello di una nenia che serbava nella sua semplicità dialettale la storia viva e vivificante di un passato pregno di religiosità fedele ed autenticamente cristiana. Il coro si allargava e ci si sentiva in compagnia di quell’ “Angiolu che la ‘mbasciata si portau: stanotti s’avi a fari lu Messia”.
Noi chierichetti, ammantati di abiti bianchi e rossi, che si accorciavano sopra le caviglie man mano che passavano dall’uno all’altro nel fluire delle novene tanto attese e degli anni straordinariamente lenti e felici, avevamo un sussulto di Gioia indicibile quando mia madre, smilza e con gli abiti eleganti della sarta reggina Freno, intonava con l’ardore di sempre: “O bella grutta chi sorti ‘ndavisti, la Vergini Maria la riggettasti, quanti benedizioni tu ‘ndavisti, di grutta Paradisu diventasti …”
La Madonna dell’Annunziata, che vegliava da Patrona sulla nostra antichissima storia di popolo indomito ed ospitale, assumeva un volto di Madre amorosa e con i suoi occhi trasparenti sembrava volesse scendere accanto al suo popolo per raccogliere ad uno ad uno i dolori, le voglie e le gioie segrete che da anni inumidivano con quelle note natalizie gli occhi: ci alimentavano a giorno a giorno nella Fede dei Padri, mai sgomenti di fronte alle avversità. Ogni angoscia si rasserenava con la Sua umile presenza, Lei che seppe serbare ogni cosa nel suo cuore e faceva sì che tutto in noi si alleggerisse: le antiche nenie, trasudanti un dialetto visceralmente carnale, erano all’unisono con Lei un “Magnificat” dell’anima ad un Dio che, se pur sentivamo sempre severo ed arcigno, ci ricordava che la Sua Bontà era infinita…
Alla fine della Messa ci attendeva un canto ancora più denso, che giungeva pur esso da una antica civiltà che ci rendeva straordinariamente forti e affratellati:
“Allestitevi , cari amici,
ca su jorna di Natali….
A lu Cielu na festa si faci,
a la Chiesa cantanu ancora …”
Osservavo mio padre in fondo alla chiesa che si accodava al coro con la sua voce fine, il viso piegato quasi a prendere la nota giusta; con le mani rugose e forti mi mandava un saluto impercettibile unito ad un sorriso rassicurante.
Ancora oggi ho l’abitudine di alzarmi che è ancora buio e quando si avvicinano i giorni dell’Attesa, i giorni che cambiarono la storia dell’uomo, sento risuonare nella mia stanza la dolce melodia delle infantili nenie natalizie. Mia madre non c’è più ma per me è sempre presente e accanto e, con animo leggero, continuo a chiederle di intonare le sue, le nostre vecchie canzoni che aprono sempre il cuore alla speranza e che mi ripetono che anche stanotte per il mondo sarà una irripetibile e sempre nuova Notte d’Amore».
Con questo brano, tratto dal volume che fece in tempo solo a vedere stampato nel 2015, “Memorie al confino. Pavese, Brancaleone e altri miti” (Rubbettino), lo scrittore e critico letterario Gianni Carteri ci ha affidato un toccante ricordo d'infanzia legato al Natale. Un ricordo immerso nel periodo felice dei primi sei anni della sua vita, trascorsi nel paese natio, Brancaleone superiore, che dovette lasciare alla fine degli anni Cinquanta per trasferirsi a Bovalino, dove poi visse. Un messaggio di grande tenerezza e di grande speranza, intriso di Fede e di devozione alla Madonna, capace di descrivere scene di vita familiare e di comunità e di sollecitare la riscoperta di tradizioni e valori religiosi, tracce di umanità profonda in grado di decantare nel tempo, di edificare lo spirito e di saldare terra e cielo. Una testimonianza dell'Amore che non è tale se non si rinnova.
Gianni Carteri ha fatto della sua penna e della sua sensibilità strumenti di instancabile e appassionato tributo alla Calabria, alle sue bellezze, ai suoi luoghi spesso segnati da calamità e abbandoni, alla sua gente, ai suoi scrittori di nascita o adozione.
La sua opera ha riguardato lo studio di tanti intellettuali originari del Sud: il poeta di Melicuccà Lorenzo Calogero - la cui lirica “Ricordo nei tempi” apre proprio la pubblicazione “Memorie al confino” - il poeta lucano dei contadini Rocco Scotellaro e quello ermetico calabrese Franco Costabile, il meridionalista di Bova Marina Pasquino Crupi e lo scrittore di Sant’Agata del Bianco Saverio Strati.
«C’è un incisivo ed originalissimo racconto di Saverio Strati, ‘L’uomo e la morte’, che mi è tornato prepotente alla memoria in questi giorni rafforzando in me l’idea che siamo di fronte all’ultimo di una grande generazione di scrittori meridionalisti che ha narrato con vigoroso stile cinquant’anni di storia calabrese, senza retorica e con una adesione appassionata al mondo degli ultimi», ha scritto sul Quotidiano della Domenica il 24 agosto 2014.
A lui particolarmente familiare è stato anche il narratore limpido di Bovalino – dove Gianni Carteri ha vissuto - Mario La Cava, al quale ha dedicato la pubblicazione “Come nasce uno scrittore” con i caratteri di Città del Sole edizioni. Mario La Cava era mosso da «un genio di rendere trasparente qualche cosa che di sfugge, che sfugge persino a se stesso», aveva scritto. Ha dedicato anche tre volumetti allo scrittore di San Luca dal titolo “Corrado Alvaro e la Madonna di Polsi. Tra religiosità, mito e storia”, “Il Dio nascosto. Viaggio nel cristianesimo di Corrado Alvaro” e “La lunga notte di Corrado Alvaro”, che gli è valso nel 2006 il Premio Anthurium d’argento, Sezione letteraria.
«Punto costante di resistenza morale, di speranza feconda, in una terra sempre più spaesata, smarrita, con una storia sbagliata e dove, spesso, l'ingratitudine umana è superiore alla misericordia di Dio», ha scritto di Corrado Alvaro. Degli ultimi istanti di vita a Roma di Alvaro lo stesso Carteri ha riferito in un articolo pubblicato sul portale Calabria on web, richiamando le parole dell’amica, la poetessa romana Cristina Campo che a sua volta ne aveva scritto: «Di Alvaro mi è sempre più difficile dire (…) Fu una notte molto lunga. Ho ancora negli orecchi il brusio della pioggia e il tuono del suo respiro(…)».
Collaboratore del mensile Studi Cattolici, diretto da Cesare Cavalleri, e del settimanale cattolico Il nostro tempo, Gianni Carteri nel 1994 è stato anche insignito del premio Pavese per la Critica letteraria e del premio Amantea per la Saggistica.
Si è occupato anche dello scrittore piemontese Cesare Pavese in confino tra il 1935 e il 1936 nella sua Brancaleone, dove iniziò a scrivere “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950” poi pubblicato nel 1952. Tra le opere di Gianni Carteri, annoveriamo proprio il trittico edito da Rubbettino e a lui dedicato, composto da “Al confino del mito. Cesare Pavese e la Calabria”, “Fiori d’agave. Atmosfere e miti del Sud nell’opera di Cesare Pavese” e “I gerani di Concia. Cesare Pavese e la Calabria”.
Proprio la casa in cui Pavese visse durante il suo esilio, oggi di proprietà di Tonino Tringali che generosamente ne apre sempre le porte, ha ospitato nel 2016, su impulso del circolo culturale Guglielmo Calarco e della Proloco di Brancaleone, l’incontro dal titolo “Il bambino che chiuse il paese. Incontro con Gianni Carteri” in memoria di quel momento del 1958 quando, a soli sei anni, Gianni bambino dovette lasciare il paese natio di Brancaleone vecchio, segnato rovinosamente da sismi e alluvioni. Gianni Carteri era mancato l'estate del 2015 e quella è stata la prima presentazione della sua ultima pubblicazione. Erano presenti la moglie Mary, i figli Francesco e Laura che lo hanno ricordato come «un appassionato di lettura che passava ore a leggere libri sottolineando con la sua matita le cose che più lo colpivano. Amante di tutta la letteratura calabrese, per lui era una gioia ogni volta che scopriva una lettura diversa, un punto di vista fino ad allora inesplorato. Aveva un carattere forte; non si è mai fatto abbattere dalla malattia; anche nei suoi ultimi giorni riusciva a ridere e a far ridere. Positivo, solare, generoso, amato da tutti quelli che lo conoscevano. Padre amorevole, capace di trasmettere la passione per la vita e di far capire a noi figli l'importanza di fare le cose che ci facevano sentire felici».
Presenti anche l’imprenditore Pippo Callipo, il poeta Gianni Favasuli, il professore Domenico Minuto e l'antropologo e amico fraterno Vito Teti che, presentando il volume, ha descritto Gianni come «il bambino che ha chiuso un paese e ha aperto altri mondi, testimoniando con la sua vita e la sua scrittura come nessuna anima dei luoghi possa essere mai cancellata».
Un titolo pregno di significato è stato scelto per quella prima presentazione del volume; un titolo per sottolineare come quello del 1958 non è stato mai un abbandono totale e definitivo. Per ultimo, quel 28 settembre, Gianni ha lasciato il paese vecchio; lo ha lasciato come fa l’ultimo testimone di una storia emozionante di amore per i luoghi di origine, con la stessa nostalgia di un albero dalle radici forti al quale si impone di non crescere lì dove quella forza ha cominciato ad essere alimentata dalla terra.
Lo stesso Vito Teti definisce l'adorata madre di Gianni, Peppina Sideri, come «la donna che chiuse il paese» nelle pagine de “Il senso dei luoghi” dedicate a Brancaleone e che lo stesso Gianni Carteri ha richiamato nell'introduzione alla raccolta di pensieri tratti dal diario della sua amata madre, Peppina Sideri, pubblicata con il titolo “Sotto un altro cielo” (Iride edizioni, gruppo Rubbettino, 2006). Uno scrigno di sterminata saggezza custodita in sentimenti semplici e in parole senza tempo che il figlio Gianni ha voluto raccogliere e condividere. «(...)la lacerazione vissuta dalla mia famiglia quando per ultimi lasciammo la splendida casa di Brancaleone superiore, tra l'insipienza e l'indifferenza di chi si era inventato una inesistente alluvione chiudendo la suggestiva e avvincente storia di un delizioso borgo "le cui macerie non hanno più il tempo, per dirla con Marc Augè di diventare rovine". Nei sogni di mamma il vecchio paese ritornava sempre, conservando ai suoi occhi il gusto dell'eterno presente. Un'utopia inseguita per tutta la vita, rievocando volti e storie a lei familiari e cantando le vecchie nenie natalizie e pasquali che conservo come autentiche perle preziose».
Rivelano il senso di Fede e di autentico affidamento di Gianni e il profondo senso di maternità di sua madre Peppina, ancora una volta, le parole di Vito Teti nella prefazione alla stessa raccolta: «La scrittura come preghiera, dialogo con sé stessi e con Gesù, ma anche come via per affermare la presenza, per superare il dolore e per ringraziare la divinità. La scrittura come continuazione di un dialogo con i defunti e con la Madonna, spesso raccontato e trasmesso all'altro, come una sorta di esperienza mistica e spirituale, come ricerca di sé e di Dio. E' qualcosa di poco abituale, di eccezionale, di miracoloso, nel paesaggio antropologico tradizionale, che ci restituisce un'immagine davvero inedita delle donne della Calabria».
Testimone di quei luoghi e di una Calabria pregna di Storia e di Storie, Gianni Carteri è rimasto fedele a questa missione lasciando affluire, come un fiume fa nel mare e il mare nell’oceano, questa sua fervida identità in una scrittura feconda e votata alla narrazione della sua terra. Tra Brancaleone e Bovalino si è snodata la sua vita di scrittore in grado, come nessun altro, di cantare in letteratura la Calabria, i suoi scrittori, i suoi intellettuali. In quel confine, tra l’infanzia a Brancaleone, e il resto della vita in qualche modo pure, la sua esistenza e la sua scrittura, la sua anima e il suo amore si sono condensati in un distillato di emozioni e nostalgia. Un lungo addio scritto su pagine e pagine dal principe dell’esilio il cui regno fu la Calabria. Un lungo addio capace di allontanare l’oblio e di accendere la memoria.
Lo stesso Vito Teti lo ricorda sempre come custode dinamico del cuore di un paese, vissuta con tutta la resistenza civile e tensione morale che risiedono nell’avere cura della memoria: ciò non consiste solo nel non dimenticare ma anche e soprattutto nel tramandare le trame di una storia senza tempo con un altissimo senso etico, nel coltivare l’erranza e la restanza non come dimensioni contrapposte ma come forze e risorse convergenti che richiedono quella fatica fatta di tensione emotiva e di profonde ispirazione e dedizione. Per questo l’esperienza dell’esilio forzato a Brancaleone di Cesare Pavese è divenuta ispirazione raffinata per Gianni Carteri che invece ha vissuto il suo esilio da Brancaleone vecchio come un viaggio fecondo durante il quale coltivare il desiderio del ritorno. Nella prefazione di “Memorie al confino. Pavese, Brancaleone e altri miti”, Cesare Cavalleri, riprende il celebre passo dell’ultimo romanzo “La luna e i falò”, scritto nel 1949 e pubblicato nel 1950 proprio da Cesare Pavese. «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Cavalleri lo riscrive per Carteri così: «Un paese ci vuole non fosse per il gusto di poterci tornare».
Anche Gianni Carteri in qualche modo ha sperimentato, dunque, l’esilio in patria e ha vissuto una faticosa restanza che tuttavia mai lo ha consumato ma sempre lo ha nutrito e lo ha sollecitato a cercare e trovare parole per scrivere e insegnare, per narrare e diffondere la grande letteratura italiana scritta in Calabria.
Quello di Gianni Carteri è stato canto di fedeltà alla Calabria, nutrito da chi quella Calabria l’aveva fermata su carta con incanto e tormento, l’aveva sofferta pur amandola oppure l’aveva scoperta e l’aveva amata solo dopo. Un canto che ha il pregio costante di diventare corale, che si è nutrito della Calabria e dei suoi narratori, considerando le loro voci come sublimi inni di splendore e, al contempo, malinconia.