di Natale Pace
Sharo Gambino era uno dei pochi amici di Mimmo Zappone che potevano gloriarsi della parola "intimo". Cinque giorni prima, soltanto cinque giorni prima, il primo novembre 1976 d'ognissanti, Gambino passa dallo svincolo autostradale di Palmi, di ritorno da Scilla dove era stato per essere intervistato da Beppe Breviglieri. E’ tentato di uscire a Palmi e far visita a Zappone. L'ha fatto tante volte, tante volte è stato bene con lui e anche Zappone. Ma il pensiero della moglie e dei figli che lo aspettano a Serra San Bruno, la preoccupazione di fare tardi lo sviano dal pensiero e tira dritto. Gambino, perse l'occasione preziosa di vederlo un'ultima volta vivo. e chissà, con l'ennesima bevuta fino a sbronzarsi e cominciare a scherzare su tutto e tutti, non poteva essere che gli toglieva dalla mente il proposito di prendere quei maledetti tranquillanti?
Il 6 novembre 1976 una eccessiva dose di medicinali lo uccideva, ultimo dei grandi intellettuali che cercarono nella morte quella quiete loro negata dalla vita. La Calabria perdeva la penna più pungente del giornalismo meridionale: Palmi uno dei suoi figli più preziosi.
Esattamente sette giorni dopo la morte, lo scrittore di Serra San Bruno pubblicava sul Giornale di Calabria questo bellissimo ricordo.
“Giorno d’Ognissanti ero stato a Scilla per un’intervista che per “Speciale TG1” Beppe Breviglieri ha voluto farmi sul fenomeno mafioso in Calabria. Al ritorno, allo svincolo autostradale per Palmi, m’era venuto il desiderio di andare a salutare Domenico Zappone che non vedevo da qualche mese. Poi il pensiero che era già mezzogiorno e mia moglie stava lottando da sola con quelle quattro pesti nate dal nostro matrimonio e perciò tirai dritto.
Ma come prevedere che da lì a quattro giorni Mimmo Zappone, facendo boccacce alla vita, se ne sarebbe andato via per sempre? Pensavo, strada facendo:
“Quando in televisione ni vedrà sullo sfondo di Scilla capirà e come a l solito mi telefonerà chiamandomi “pezzo di porco” e mi rimprovererà di non essermi fatto vivo a casa sua”
Ci incontravamo spesso. Andavo io a Palmi, veniva lui a Serra San Bruno, dove andava a pranzare (lui buona forchetta e grande intenditore di pietanze e di vini) al Kursaal di Nicola Franco. Una volta, sapendo quianta idiosincrasia avesse per le accademie poetiche, passai da Palmi e lo imbarcai sulla mia 500 e lo portai appunto ad una di quelle accademie per godermi lo spettacolo di lui che stava sulle spine e gonfiava le guance e sbuffava ed imprecava sottovoce e si alzava e si sedeva… fino a quando non ne potè più e scappò fuori, all’aria aperta. Durante il pranzo “poetico” qualcuno portò la notizia che Giuseppe Malara, il terribile ultraottantenne direttore de “Il Piccolissimo” era stato malamente investito da un’auto ed ora si trovava nell’ospedale di Reggio.
“Andiamo a trovarlo” mi disse Zappone.
Melara giaceva in un lettino. Era tutto ingessato e dove non aveva gesso era tutto pesto e graffiato. Zappone cominciò a stuzzicarlo e lo rese sereno. Poi passò a ricordare certe vicende legate a un pezzetto di terra che Malara possiede dalle parti di Gallico e allora accadde il finimondo, perché Zappone rideva e ghignava e Malara rideva più di lui e rideva tanto che spesso il riso si trasformava in una smorfia di dolore e questo era motivo di altre risate, di altre espressioni colorite, che chiamavano altre risate…
Stare con lui, conversare con lui era uno spasso perché aveva un linguaggio colorito e pieno di immagini. Teneva a mostrarsi cattivo certo per nascondere la sua grande bontà. Reagiva in quel modo alla vita, che lo aveva deluso, disgustato, giacchè non aveva saputo premiare nel giusto merito i suoi grandi pregi, le sue virtù di studioso, di scrittore. Come il Cyrano di Rostand, infatti, Zappone era andato avanti senza piegare la spina dorsale dinanzi ai “potenti del campo letterario” non aveva chiesto aiuti, né calci per emergere. Questa sua dirittura egli me la rivelò un giorno a Reggio, quando insieme ad assistere all’inaugurazione del monumento a Corrado Alvaro. Salendo certi gradini, inciampò con la gamba sinistra, che aveva irrigidita per una vecchia malattia e cadde malamente. Feci per aiutarlo, ma egli rifiutò e quasi urtato: “Lasciami stare” mi disse “me la vedo da me”.
Ecco, Zappone se l’è vista sempre da sè. Non ha voluto appoggi da nessuno. Salir, anche non alto, ma salir senza aiuto, fu il su o principio. E questo principio egli, nelle lunghe conversazioni che avevamo, si premurò di inculcarmi nella mente e nell’anima. Una lezione di vita che non dimenticherò.”
Cinque giorni dopo quel viaggio a Scilla di Sharo Gambino Domenico Zappone, che di tutti e tutto nella vita s’era fatto beffa, provò a sbeffeggiare anche la morte, andando a ingrossare la schiera di scrittori suicidi calabresi: Calogero, Costabile,, Rito…
Quella sera, quando lo ritrovarono quasi agonizzante nella sua camera, il più lesto a caricarselo sulle spalle e correre verso l’ospedale, fu il nipote Dante De Maria, figlio della sorella di Nanù. Per celia, ma anche per mantenerlo sveglio il più possibile, gli ripeteva continuamente: “non è che ci combini lo scherzo di andartene così!” E Zappone non ce la fa a rispondere, ma, con gli occhi stravolti, trova solo la forza di fare il segno tipico antimalocchio delle corna con indice e mignolo, come per scacciare via una iettatura. L’ultima burla di un grande giornalista calabrese, qualcuno ha scritto forse il più grande che la Calabria ha avuto, grande forse quanto il suo idolo Hemingway che voleva emulare e del quale scrisse pagine bellissime di un racconto. Forse fu un Goffredo Parise incompiuto, certo ne aveva i mezzi e non riuscì ad esprimerli fino in fondo, ma i suoi articoli, i resoconti di viaggio, pubblicati sui quotidiani nazionali più conosciuti stan lì a testimoniare il largo respiro di questo grande intellettuale. Fin da giovane fu collaboratore del Giornale della Sera, poi al Nuovo Corriere e al Giornale dell’Emilia. Con il Giornale d’Italia ebbe una breve esperienza redazionale, ma il suo carattere insofferente ad ogni compromesso lo costrinse a ritornare a Palmi dove continuò la sua attività attraverso le pagine de Il Tempo, la Gazzetta del Mezzogiorno, il Gazzettino di Venezia e la RAI per la quale divennero famosi gli articoli per il Gazzettino Regionale che immancabilmente chiudeva con “firmato: Domenico Zappone”.
Gambino invece gli sopravvisse trentadue anni, morì infatti a Lamezia Terme nel 2008, a ottantatre anni. Anche lo scrittore di Serra San Bruno continuò sulla strada del giornalismo tracciata da Zappone giornalista. Scrisse per il Messaggero, Il Tempo, La Gazzetta del Sud, Il Corriere Calabrese, Il Gazzettino dello Jonio, , Il Giornale di Calabria. Ha collaborato per quasi mezzo secolo con la Rai.
Scrisse molto di e sulla mafia calabrese, ritenuto un esperto in questo ambito con i suoi volumi La mafia in Calabria, primo saggio sull'argomento seguito da Mafia la lunga notte della Calabria e ‘Ndranghita dossier.
In questo lungo, laborioso impegno giornalistico e di saggista, Sharo Gambino dove ha potuto, in ogni occasione che ha potuto, non ha mai omesso di ricordare Domenico Zappone e di dichiararsi apertamente suo discepolo.
Giuseppe Melara è l’altro grande amico di Mimmo Zappone. Mi viene da pensare che sia stato per primo l’intellettuale di Gallico ad avviare il nostro all’arte del giornalismo. Nel 1931-32 Malara fonda e dirige “Il Periscopio” esuccessivamente “Il Velivolo” nel 1944. Credo che ne interrompa la stampa per gli eventi legati alla seconda guerra mondiale, ma, a guerra ancora in corso, riprende e trasforma il giornale in un foglio trimestrale a quattro facciate, ogni tanto sei, che chiama “Il Piccolissimo” con sottotitolo: “Polemico, Antiletterario, Anticonformista” e ancora nell’intestazione: “Non si trova nelle edicole, non si manda in abbonamento, è aiutato dagli amici”. Il giornale in effetti mantiene nei contenuti il dettato del titolo e Giuseppe Malara ne è degno direttore: scontroso, burbero, franco nelle sue prese di posizione fino alla personale invettiva, offesa nei confronti di chi non gli andava a genio o avviasse polemiche con lui. Mimmo Zappone collaborò al Piccolissimo praticamente fino alla morte. Firmava gli articoli più duri e scabrosi, polemici a punta di coltello, firmandosi con gli pseudonimi Belzebù o Sputafuoco. E questo dice tutto. Scrive Melara in un pezzo bellissimo per ricordare Zappone nel numero XXIX di maggio 1977: “A parte l’amicizia, Zappone è stato il più prolifico collaboratore di Piccolissimo. Sfogliandone la raccolta trovo una sessantina dei suoi scritti almeno un terzo dei quali nella rubrica “Forno crematorio” a firma Sputafuoco, si divertiva a… incenerire scrittori grossi e piccoli. Aveva cominciato a collaborare sui miei periodici che precedettero questo (Il Periscopio, 1932-33, e il Velivolo, 1944) entrambi vissuti poco”.
Ho recuperato nei pochi numeri di Piccolissimo in mio possesso una sbiadita foto di Giuseppe Malara, in bicicletta sul lungomare di Reggio mentre si reca in tipografia. Scrisse anche un libro di narrativa, Malara, “La Covata”, contenente sei racconti, tra cui quello che da il titolo, stampato dall’editore milanese Gastaldi nel 1951, con il quale il gallicese aveva vinto proprio il Premio Fondazione Gastaldi 1951.
Non ho molte altre notizie di questo eclettico intellettuale reggino. Sarei grato a qualche amico generoso che avendone ed essendo in possesso di documentazione volesse mettermene a parte, perché ritengo che Giuseppe Malara è giusto farlo uscire dalle dimenticanze del tempo e da quelle ingenerose dei reggini e dei calabresi.