di Anna Foti
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
Tra nostalgia e dramma si stagliano nel cielo della Storia questi versi di "Ulisse" di Umberto Saba. Il poeta triestino conobbe la persecuzione, in quanto figlio di madre ebrea nell'Italia delle leggi razziali, l'esilio dall'Italia e il ritorno nella sua Trieste.
Una targa argentata in mezzo alla pavimentazione di Piazza Unità d'Italia ricorda Benito Mussolini che, su un palco davanti al Municipio il 18 settembre 1938, diede l'annuncio ufficiale delle leggi razziali che sarebbero state in vigore dal novembre successivo fino al 1944. Nel Secondo Dopoguerra ancora divisa tra Italia e Jugoslavia, Trieste, che aveva già dato i natali ad Aron Hector Schmitz, autore con lo pseudonimo di Italo Svevo de "La Coscienza di Zeno", "Una vita" e "Senilità", e aveva già ispirato lo scrittore irlandese James Joyce che lì terminò "Gente di Dublino" e concepì l'imponente "Ulisse", divenne teatro di scontro tra i partigiani antifascisti italiani e le brigate dei partigiani slavi di Tito.
I versi di Umberto Saba scavano nell'anima come nella Storia e lasciano emergere sentimenti di dolore e speranza degli Italiani residenti in quella e nelle altre zone di confine. Già provati dalla guerra e dall'occupazione tedesca, si ritrovarono improvvisamente perseguitati nei luoghi di origine.
"Secondo lei era successo tutto a Goli Otok, un'isola deserta trasformata in lager, a pochi chilometri dalla costa dalmata. In quel posto venivano rieducati i 'traditori'. La rieducazione consisteva nell'eliminare dagli uomini ogni traccia di umanità. I detenuti si seviziavano a vicenda. Il rispetto, la dignità, la forza dei legami più intimi, tutto veniva cancellato. I padri uccidevano i figli e viceversa. Assassinare il prossimo era l'unica via possibile per vivere ancora un poco. Non esistevano più volti, al loro posto c'erano i rantoli, fiati, maschere di sangue", scrive Susanna Tamaro, scrittrice di origini triestine nel suo romanzo "Anima Mundi" (Baldini e Castoldi 1997).
Il contesto delle foibe e l’esodo degli italiani
Da fratelli e sorelle a nemici perché italiani e dunque tutti indiscutibilmente fascisti. Questo il destino, nel Secondo Dopoguerra, di decine di migliaia di Italiani residenti in terra d’Istria, Dalmazia, Gorizia, Trieste, Fiume, Pola, Zara, Spalato, in quel caldo lembo di terra dell’Adriatico Orientale. Incastonata con il sangue nell’epoca dei nazionalismi, l’intolleranza nei confronti degli italiani, che fino all'Armistizio di Cassibile (firmato il 3 settembre 1943 ed entrato in vigore l'8) avevano pacificamente convissuto con le popolazioni slave, sfociò in un massacro a lungo rimosso e ignorato dalla Storia. Fosse scavate nel Carso, regione comune ad Italia, Slovenia e Croazia, e altre gole ricavate in territorio istriano, le foibe erano dunque inghiottitoi naturali, dove vennero gettati ventimila italiani (difficile la ricostruzione precisa del dato), molti dei quali ancora vivi, torturati, massacrati e fucilati dai partigiani di Tito che, negli anni tra il 1943 e il 1945, attuò una persecuzione degli Italiani perché ritenuti tutti fascisti. La complessità della storia, la sua assurdità. Mentre l’Italia si accingeva a vivere un nuovo capitolo, liberata per mano degli Alleati dall’occupazione nazista, mentre finiva la Seconda Guerra Mondiale a Trieste, solo dal 1954 provincia non più divisa con il governo slavo ma esclusivamente italiana, a Gorizia (dal dopoguerra divisa tra Italia e Jugoslavia) e in Istria, solo dallo stesso anno sotto la piena amministrazione jugoslava, si consumava una tragedia che ebbe i contorni netti e drammatici di una pulizia etnica per mano dell’Armata Popolare di Liberazione della Yugoslavia, spinta da chiare mire espansionistiche di stampo comunista. Dissidenti, intellettuali ed italiani furono i principali bersagli di persecuzioni, annegamenti, deportazioni, omicidi di massa. L’immagine più drammatica di questo accanimento furono proprio le foibe.
In questo clima, in migliaia divennero esuli per sfuggire alla repressione e ad una forzata cittadinanza slava. Il 90% della popolazione italiana si ritrovò condannata all’esilio per sopravvivere.
Tra chi nega la gravità di quanto accaduto e chi cerca di strumentalizzarla, c’è anche chi afferma che i massacri furono una violenta reazione alle brutalità fasciste, dunque una vendetta, e ascrive a questa pagina vergognosa un numero di vittime notevolmente inferiore. Invece le radici di quell’odio etnico non promanavano solo da un passato di assimilazione forzata delle minoranze etniche in epoca fascista. La questione era molto più complessa e poggiava anche sull’annessione di parte della Slovenia per mano delle truppe italiane, dopo il colpo di stato di Belgrado nel 1941, e sulla feroce e violenta guerriglia che scoppiò tra slavi e italiani mentre cresceva la tensione tra comunisti e tedeschi in est Europa nello stesso anno. Le atrocità furono reciproche e la repressione delle truppe italiane cruenta, specie a seguito della nascita di movimenti di resistenza. Fu l’armistizio del 1943 a segnare l’inizio dell’ingresso delle truppe tedesche a Trieste; intanto in tutta la Venezia Giulia – Trieste, Gorizia e Fiume – i partigiani di Tito sopprimevano migliaia di italiani, tra cui la studentessa di origini istriane, Norma Cossetto, medaglia d’oro al Valore Civile cui è intitolata una targa presso l’area archeologica “Griso - La boccetta”, in via Torrione a Reggio Calabria.
Terribile fu anche la sorte della Dalmazia, dagli anni Novanta distribuita tra Croazia, Bosnia Erzegovina e Montenegro, occupata nel 1944 dalla Jugoslavia che nei mesi successivi avrebbe puntato all’annessione della Venezia Giulia, dove nel 1945 si estesero i massacri. Migliaia le persone scomparse. Decine di migliaia gli esuli. Uomini uccisi, donne abusate e poi gettati in queste fosse in un feroce progetto di eliminazione degli oppositori politici, delle minoranze anche di nazionalità slovena e croata, tedesca e ungherese, degli italiani fascisti e di affermazione ad ogni costo del dominio slavo. Cittadini perseguitati perché italiani. Furono migliaia i cadaveri occultati di cui il governo De Gasperi chiese lumi a Tito che mai smentì. Migliaia le persone costrette a lasciare la loro casa e la loro patria, altrettanti gli esuli, 20 mila quelle infoibate.
Le testimonianze
"Per un esule, quale sono stato, la parola era il solo modo per difendere la mia identità. Sono nato a Spalato. Ho avuto un'infanzia privilegiata. La famiglia era ricca. Un nonno industriale del cemento. Poi la guerra. I rivolgimenti. La rapida fine di un mondo. Il mio mondo. Conoscevo il tedesco, il croato, l'italiano. In casa si parlava veneto. La Dalmazia aveva avuto una lunga storia con Venezia. La marina della Serenissima era composta di istriani e dalmati. Mi affascinavano le mescolanze di lingue, di storie e di uomini. Poi la felicità venne meno. Mi ammalai. Scoprendo, improvvisamente, il senso della precarietà. (...) La guerra in un miscuglio di orrori aveva travolto villaggi e città. Portammo le nostre cose, quel poco che restava della florida attività imprenditoriale in Italia, fuori dall'influenza comunista. E di Tito". Enzo Bettiza, giornalista, scrittore e politico, originario di Spalato e scomparso a Roma nel 2017 - intervista rilasciata a Repubblica.
"Mio padre non era nemmeno un fermo antifascista ma, per naturale disposizione del suo sentire, assai vicino alle loro posizioni, ricche di valori umani e sociali... La decisione del restare fu tutta sua e di sua madre, mia nonna. Era arrivato il camion per trasportare laroba al Molo Carbon, papà puntellava armadi e sbandize del letto con le traversine, c’è questa percezione acuta del martello che batte, nonna aiutava il camionista a caricare le suppellettili e tra un materasso e un comò tutti e tre si scolavano, chi qua chi là, un bicchiere di bianco. (...) Quanti sacrifici, quanta fame, quanta miseria sofferti per quella casetta in cui aveva aperto l’osteria e la rivendita di sali e tabacchi. E lasciar tutto per andare in un mondo sconosciuto? La bala fu determinante, rese più facile lo scaricamento del mobilio e il congedo del camionista e del camion vuoto. Fu questo il restare dei miei. Le zie, gli zii, le cugine partirono, papà e nonna restarono. Mio fratello ed io eravamo fioi, bambini. Fu questo il nostro restare, il mio restare".
"Una valigia di Cartone", racconto di Nelida Milani Kruljac, scrittrice nativa di Pola, in Croazia, dove insegna all'università.
Infoibati calabresi
Tra i deportati verso le foibe ci furono anche uomini calabresi, come si legge nell’elenco delle 1048 anime tradotte forzatamente in Slovenia nel maggio del 1945; vite strappate nella Gorizia occupata da Tito. Le anime che non fecero mai ritorno a casa furono quelle dei carabinieri Pasquale Pellegrino ed Umberto Abate, rispettivamente di Falerna (Catanzaro) di San Lucido (Cosenza), del civile Gregorio Malena di Rossano (Cosenza), dei fratelli Mario e Oscar D’Atri di Castrovillari (Cosenza), rispettivamente esercente e sergente maggiore dell’Esercito. In quella lista nera come la tenebra ci sono anche i nomi dell’agente di pubblica sicurezza Giuseppe Crea di Motta San Giovanni (Reggio Calabria), Michele Lubrano di Radicena (Reggio Calabria), portato via dal carcere di Monfalcone prima di scomparire, Severino Quartuccio, nato a Chorio (Reggio Calabria).
La violenza e la morte, inoltre, non risparmiarono il caporale bersagliere Antonio Muraca (o Muracca), ucciso a Tolmino (Slovenia), Giacomo Spezzano, guardia di pubblica sicurezza scomparso da Gorizia il 10 settembre 1944, entrambi di Reggio Calabria, l’appuntato dei carabinieri Gaetano Mirenzi di Vazzano (Vibo Valentia), arrestato il 5 maggio 1945.
Le testimonianze in Calabria
"Abbandonammo tutto e scappammo dalla fame cui il destino ‘titino’ ci condannava”.
Lidia Muggia esule istriana, presidente onorario del comitato 10 febbraio di Reggio Calabria.
"Nel 1949, non volendo diventare croati, abbiamo pagato il prezzo dell'esilio e dell'abbandono della nostra casa e di una terra in cui da italiani, prima della persecuzione, avevamo vissuto in pace. Con mia madre, mia sorella e i miei due fratelli, sono partito con la valigia di cartone dall'isola di Lagosta in Dalmazia, oggi in Croazia, dopo aver sofferto la fame e gli stenti. In quel momento eravamo sollevati di oltrepassare il confine e di raggiungere l'Italia. Arrivammo a Trieste da lì ricominciò la nostra vita. Lì sapemmo, attraverso il racconto di mia zia, del dramma delle foibe", ha raccontato Giovanni Carlini, cittadino italiano, esule dalmata, residente a Reggio Calabria.
Denegata giustizia
L’amnistia Togliatti del giugno 1946, e l’indulto per i reati politici commessi entro il giugno del 1948 approvata dal Governo Pella impedirono di fatto i processi di accertamento delle responsabilità di quella che fu un’esecuzione di massa per mortivi etnici, ascrivibile a crimine contro l’Umanità.
Un processo fu poi istruito in Italia contro alcuni responsabili dei massacri. Negata la competenza italiana dei giudici, il massacro rimase impunito. Nel 2003 si concludeva questo processo favorito dall’avvocato Augusto Sinagra che aveva presentato denuncia formale per gli eccidi avvenuti nella Venezia Giulia e aveva consegnato numerose testimonianze di parenti delle vittime e sopravvissuti alla procura di Roma. I carnefici indicati erano tutti esponenti della OZNA, servizi segreti militari jugoslavi, tra cui Oskar Piskulic, Iovo Mladenic, Vicko Larkovic Minarci, Milan Cohar, Norino Nalato e Giuseppe Domancic.
Purtroppo rimase un processo senza colpevoli. Nei confronti di Oscar Piskulic e Ivan Motika - quest’ultimo il presidente del tribunale del Popolo che decideva anche del destino degli italiani - non caddero le accuse ma fu rilevato il difetto di giurisdizione. Nonostante il processo e le condanne, essi non furono estradati per via di questa eccezione formale.
Il recupero della Memoria, viatico di Speranza
Lo scorso luglio, Borut Pahor è stato il primo presidente di uno dei Paesi nati dalla disgregazione della ex Jugoslavia a commemorare le vittime italiane delle foibe. Lo ha fatto al fianco del presidente della nostra Repubblica, Sergio Mattarella, stringendogli la mano, in uno del momenti che certamente passerà alla Storia. Il luogo in cui ciò è avvenuto è particolarmente emblematico: la foiba di Basovizza, a nord'est dell'altopiano del Carso in provincia di Trieste, dove si stima che i partigiani jugoslavi abbiano gettato duemila italiani tra militari e civili. A Bassovizza si erge anche il monumento in onore degli eroi di Basovizza, i quattro antifascisti membri del TIGR, Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Zvonimir Miloš e Alojzij Valenčič, simbolo dell'antifascismo sloveno, condannati a morte e fucilati nel 1930 dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato per una serie di attentati, compreso lo scoppio di una bomba alla redazione de "Il Popolo di Trieste", l'organo locale del PNF, che causò la morte di un redattore, Guido Neri, e il ferimento di tre persone.
Una cerimonia proseguita con la consegna a Boris Pahor, scrittore e insegnante sloveno con cittadinanza italiana classe 1913, delle onorificenze di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana e dell'omologo (Red za izredne zasluge ) della Repubblica slovena. Una scelta che non ha mancato di sollevare contestazioni per via di alcune dichiarazioni negazioniste delle foibe dello stesso scrittore.
Il giorno del ricordo
Solo dal 2004 alla Memoria è stato consentito di far riemergere quella storia vissuta ma troppo poco raccontata, del dramma delle Foibe. Una legge ha infatti istituito “Il giorno del Ricordo”.Fu indicato il 10 febbraio, il giorno in cui venne firmato il Trattato di pace nel 1947 Parigi e fu sancita la cessione di quelle terre alla Jugoslavia. In quell’anno, dalla città di Pola (Istria- Croazia) il 90% della popolazione divenne esule e perse ogni cosa. La memoria è necessaria ma non si creda che essa possa neanche lontanamente sopperire ad una giustizia che avrebbe dovuto essere in grado di ricostruire la verità e consegnare a quella stessa Storia i responsabili. Crimini contro l’Umanità rimasti impuniti che generano ancora oggi ferite e dolore. Esiste tuttavia anche una eredità sopravvissuta alla cieca violenza. Le contaminazioni etniche tra Slavi ed Italiani, tutelate dalla legge, sono ancora oggi una ricchezza proprio in Friuli Venezia Giulia e in Veneto.