di Florinda Minniti
Il canto XXVI dell’Inferno, fra i più celebrati della Commedia, ha come protagonista il mitico eroe greco Ulisse, che narra in prima persona la sua ultima avventura. Per questo e per l’universale valenza simbolica del personaggio il XXVI dell’Inferno è definito per antonomasia il “canto di Ulisse”.
E’ necessario premettere che Dante non ebbe nozione diretta dei poemi omerici (la conoscenza del greco antico si era persa nel Medioevo tranne in un circoscritto territorio della Calabria, dove sopravviveva ad opera del monaco Barlaam di Seminara e del suo discepolo Leonzio Pilato) e probabilmente neanche dei tardi riassunti di essi nè delle elaborazioni romanzesche di ambiente neolatino (il poema francese di Benoit de Sainte Maure e la storia latina di Guido delle Colonne), dove la narrazione del nostos, ritorno, di Ulisse ad Itaca trovava ampio spazio.
Tuttavia non mancavano le fonti alle quali attingere: Virgilio (Aen.,III) e Stazio (Achill., I) fornivano la notizia degli inganni famosi e della personalità dello scelerum inventor; Ovidio (Metam.,XIV,154 e segg.) narrò dell’ultimo viaggio dei naviganti ormai vecchi e stanchi; Orazio (Ars poet., 141-142) parlò della vasta esperienza che Ulisse ebbe di paesi e uomini; infine Cicerone (De finibus, V, XVIII, 48-49; De off., III, 26) e Seneca (De const. sapientis, II, I) riferivano della sapientiae cupido e dell’innatus cognitionis amor dell’eroe più forti di ogni altro affetto, di ogni rischio e di ogni timore.
Poi Dante plasmò il personaggio con invenzione originale: infatti le colpe e gli inganni dell’astuto tessitore di frodi Ulisse, dopo essere stati brevemente riepilogati, rimangono in distanza, diremmo sullo sfondo, mentre balza in primo piano l’Ulisse inquieto, audace, ardente del desiderio di conoscenza, drammaticamente lanciato verso l’ignoto e l’inevitabile morte.
La narrazione dell’eroe inizia in medias res, con un rapido flash-back che rievoca, dopo il soggiorno presso Circe, durato un anno, il quieto mondo degli affetti più cari, la dolcezza del figlio Telemaco, la pieta / del vecchio padre Laerte, il debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta.
Ma nello stesso momento in cui essi vengono menzionati, vengono anche negati (la negazione nè viene ripetuta tre volte): Ulisse sacrifica l’amore nei confronti dei congiunti più stretti, i legami familiari più sacri (il padre, il figlio, la moglie abbandonati una seconda volta a Itaca) all’ ardore che egli sente di divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore; dunque la scelta drastica, ed egoistica, è fatta in nome del primato dell’esperienza intellettuale.
Lo scenario dell’estrema impresa dell’eroe e dei suoi compagni è il mare, emblema di avventura, ignoto, pericolo: ma misi me (l’allitterazione sottolinea la determinazione all’impresa) per l’alto mare aperto/ sol con un legno e con quella compagna/picciola da la qual non fui diserto (vv.100-102).
La sfida appare subito sproporzionata: non è forse temerario affrontare il vasto mare aperto con una sola nave e con pochi compagni ormai anziani, seppure fidati?
Il racconto procede descrivendo la navigazione mediante essenziali notazioni geografiche: la Spagna, il Marocco, la Sardegna e le altre isole del Mediterraneo occidentale, come se il pensiero e lo sguardo fossero rivolti a quella foce stretta/ dov’Ercule segnò li suoi riguardi, lo stretto di Gibilterra dove Ercole aveva posto i confini del mondo esplorabile, l’ecumene (il mondo abitato e conosciuto), con un solenne, superiore divieto: acciò che l’uom più oltre non si metta. Dunque le colonne d’Ercole costituiscono il limite oltre il quale l’uomo non può spingere lo sguardo né il desiderio poiché se ciò avvenisse la trasgressione sarebbe inesorabilmente punita.
Ciò non intimorisce Ulisse, tutt’altro, ma forse i compagni vecchi e tardi sono esitanti. E’ dunque necessario incoraggiarli e riaccendere in loro l’antico desiderio di ardite avventure; pertanto egli rivolge loro un’orazion picciola, (discorso nel discorso) che, sapientemente costruita, li convince e li esalta. Come negarsi l’esperienza, /di retro al sol, del mondo sanza gente in questo ultimo scorcio di vita? Come non condividere che la vera distintiva essenza dell’uomo rispetto ai bruti, è seguir virtute e canoscenza, vale a dire la perfezione morale e intellettuale? L’impresa deve essere realizzata prima che sia troppo tardi.
Dopo il passaggio dello stretto finora inviolato la nave assume una velocità temeraria, de’ remi facemmo ali al folle volo, che sembra tradurre concretamente l’entusiasmo suscitato dalla orazion picciola negli animi dei marinai. Poi il trascorrere del tempo è sottolineato dal cielo notturno trapunto di stelle e dall’avvicendarsi delle lune sopra distese d’acqua sconosciute.
Improvvisamente appare una visione indistinta, un’alta misteriosa montagna, salutata dai naviganti con gioia subito volta in pianto. Un turbine di vento li avvolge, fa roteare la nave per tre volte, numero simbolico, e poi l’inabissa, com’altrui piacque, nelle profondità del mare, quel mare che è lo scenario sconfinato e insidioso che apre e conclude la narrazione che Ulisse fa del suo ultimo viaggio.
Il centro tematico del canto è l’ardore di conoscenza. Il problema che ora si pone è stabilire quale sia il giudizio di Dante nei confronti dell’eroe e della sua impresa. Certamente il poeta condivide l’idea che nel sapere consista la nobiltà dell’uomo, il suo tratto distintivo, il discrimine tra umanità e bestialità: lo afferma a chiare lettere nel Convivio, là dove sostiene che la conoscenza è l’ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade (I, 1). Ma d’altra parte è anche convinto che essa abbia precisi limiti che all’uomo non è lecito violare, insiti nella naturale imperfezione di questo e voluti e posti da Dio stesso. E dunque il viaggio di Ulisse nel mondo proibito viene definito folle volo dove follia significa eccesso, travalicamento delle proprie possibilità e finanche ubris, che comporta la fatale trasgressione di divieti stabiliti da Dio.
Lo studioso russo J. Lotman ravvisa in Ulisse l’originale doppio di Dante. Infatti entrambi sono viaggiatori e superano i confini di spazi proibiti, ponendosi per vie diverse la stessa meta: la montagna avvistata da Ulisse, unica terra emersa nel mondo sanza gente, è difatti il Purgatorio. Il poeta ammira la nobile sete di conoscenza dell’eroe, ma non l’approva, essendo invece il proprio percorso di conoscenza legato alla moralità. Dante è un pellegrino, Ulisse un esploratore.
Per questo mentre l’impresa dell’eroe è destinata fin dall’inizio allo scacco, quella del poeta, in obbedienza al disegno divino e sorretta dalla Grazia, ha proseguito oltre il limite proprio della ragione e ha indagato l’ambito metafisico attingendo la verità rivelata da Dio.
In ultima analisi si può affermare che Dante ha posto con voce profetica il tema della conoscenza e dei suoi rapporti con la morale (religiosa o laica), tema che è divenuto centrale nel nostro tempo, nel quale il progresso scientifico e tecnologico appare inarrestabile ma anche difficilmente controllabile.
E dunque Ulisse si configura come il prototipo dell’uomo che esplora il mondo, ma per il poeta, espressione e sintesi del Medioevo, egli rappresenta un modello inaccettabile, portatore di disordine. E tuttavia la figura di Ulisse, pur nella sua dimensione problematica, e forse proprio per essa, rimane scolpita dalla potente visionarietà di Dante.