di Natale Pace
L’ho fatto!
Così come l’ha descritto Gioacchino Criaco a pag.60 de “Il custode delle parole” (Narratori Feltrinelli, 2022), ho preparato il piatto dei pastori d’Aspromonte. Ma non ci ho messo solo gli ingredienti di cucina, l’ho fatto esattamente come lui, aggiungendovi ingredienti che non si trovano al supermercato: l’amicizia, l’amore, la famiglia, la magia delle sere calabresi.
Qualche sera prima del tampone positivo (e io che dopo tre anni mi credevo immune per sorte divina) ho invitato la ciurma dei parenti più cari, le ho raccolte in giardino al riparo dall’umido serale sotto il gazebo a tetto spiovente e mentre loro coglioneggiavano di celie sacre, segregato in cucina, l’ho fatto.
Ogni tanto qualcuno ci provava, si avvicinava dentro casa: “vuoi una mano?” mal gliene coglieva, perché lo rincorrevo col mestolo di legno fino alla porta.
Il pacco della struncatura comandava su tutti gli altri ingredienti sul tavolo della cucina: altero, padrone, sapeva che la festa era in suo onore, come anche sentiva la responsabilità di trasmettere odori passati, scottature rosse di peperoncino sulla lingua, echi di querce millenarie, di foglie come ance di oboe nel folto delle faggete, gorgoglii di acque a tratti scroscianti in improvvise cascate freschissime che la ciurma doveva sentire prima negli occhi e nella testa e poi, molto poi nel palato.
Volevo che la sera si facesse tarda, perché nel silenzio, gli ulivi si travestissero, diventassero folte pinete e la fantasia dai miei racconti evocata scovasse colorate rosite dopo l’ultima pioggia. Per questo prima di chiudermi in cucina, tra lazzi e scherzi e qualche borbottìo volli che fossimo tutti riuniti a cerchio intorno al tavolo di pietra, volli leggergli la ricetta: mangeremo un poco più tardi e il fresco della sera vi farà venire più fame:
Siamo in Aspromonte, Andrìa e la sua ragazza, Caterina, hanno accompagnato il nonno a portare le pecore e gli altri animali dalla pianura dello Jonio alla casupola in montagna, dove passeranno l’estate. C’è anche Yidir il ragazzo dalle cinque vite, immigrato a cui Andria ha salvato la quinta vita durante il naufragio del barcone sulla secca dei capperi. Gli altri sono fuori a chiacchierare e Andria racconta:
“[…] preparo. Faccio con lentezza perché nel cibo ci devi far entrare l’agapì, l’amore, se cucini per le persone care. Con gli ingredienti ci devi chiacchierare, li devi trattare con cura e rispetto. Stasera farò il mio piatto speciale, la fatica della transumanza se lo merita, mi sono portato dietro ciò che serve: taglio a fette una grossa cipolla color vinaccia, di Tropea; il suo piccante è una nuvoletta che mi sale agli occhi, mi pizzica il naso e le labbra, la depongo fra le lacrime sul fondo di un largo tegame d’alluminio, poi faccio a pezzi una striscia di lardo affumicato e la metto in padella, ci verso un poco di olio e lascio andare a fuoco lento per qualche minuto. L’olio scioglie il lardo e indora la cipolla, ci aggiungo le fave e i piselli che nonna ha pulito e messo in un sacchetto. Intanto che tutto si rosola, metto su la pentola dell’acqua […] Poi butto la pasta: la scopatura, la chiamavano un tempo, perché si faceva con quello che si scopava per terra nel mulino, dopo la molitura del grano. Adesso è diventata la struncatura, una sciccheria che costa cara, ma continua a essere buona. E’ simile a degli spaghettoni di un colore scuro fra il nero e il verde, molto lunghi, e ci vuole un buon numero di minuti perché s’intenerisca. La servo in tavola con prezzemolo, peperoncini verdi e pecorino”.
Così l’ho fatta, alla lettera! E la ciurma mangiava, sibilava gridolini al peperoncino che chiamava un sorso di rosso e poi mangiava e poi i gridolini erano risate e ancora vino e risa sguaiate da ubriacatura. I complimenti mi sono arrivati il giorno dopo. Davvero una bella serata, l’odore di Calabria e di affetto è rimasto sparso tra le piante del giardino!
Giorni addietro, Arcangelo Badolati ha definito Gioacchino Criaco il nuovo Alvaro della Calabria. Arcangelo non è uno che si sbilancia facilmente, prima di esprimere un parere, un giudizio, stai certo che lo ha soppesato. La cautela nell’esprimersi è un pregio suo caratteriale, ma gli viene da una delle famiglie più antiche di Palmi che ha onorato la Calabria, gente di legge che le parole ha sempre saputo pesarle e “custodirle. Persone come il papà Felice, che aveva occhi buoni come il miele quando ti guardava ti lasciavano un mare di serenità e di rispetto dentro.
La prendo per buona questa incoronazione, anche se so, lo sa anche Gioacchino, che il miglior giudice per gli uomini di lettere è il tempo; non sempre giusto, non sempre imparziale, ma è il tempo lungo che tiene in vita quasi tutti i meritevoli e lascia nel pozzo della dimenticanza quasi tutti gli immeritevoli.
Sarà contento Gioacchino di questo vaticinio badolatiano, anche in considerazione della grande amicizia che lega i due intellettuali calabresi.
In comune con Alvaro, Criaco ha l’Aspromonte dei pastori, che lo scrittore di Africo conosce bene essendo egli stesso figlio di pastori, i boschi salvati dalla modernità e quelli che la natura ha contaminato. Straordinariamente efficace il racconto della giornata della tosatura delle pecore:
Il cane ha spostato il gregge davanti al nonno. Lui e il ragazzo levano collari e campanelli alle pecore, il vecchio li infila uno alla volta in una lunghissima pertica, che è la stessa di sempre. Sembrano gli scalpi davanti alle tende degli indiani. Il sale è salvifico per gli animali, ma sarebbe mortale per i magnifici intarsi nel legno di gelso di cui sono fatti i collari, e ammutirebbe le note del batacchio di ferro sul rame”.
Poi una alla volta, a fatica, le bestie vengono calate in ammollo tra le onde, perché il sale marino svolga la preziosa funzione di lavaggio e disinfettazione. Dopo il primo lavaggio in mare, il secondo nel fiume. Sempre con l’aiuto di Calinero il cane pastore che le sospinge a risciacquarsi e bere. Dopo il riposo notturno, il giorno dopo la tosatura dei pregiati velli di lana, ancora manualmente, con le gestualità arcane di secoli e secoli di storia che qui sembra non avere intaccato minimamente abitudini e parole che, di tanto in tanto, Criaco tinge di stupende grecanicità.
Questo ultimo lavoro di Gioacchino Criaco mi pare diverso dalle splendide storie, vivifiche, visionarie, ammantate di mistero che ci ha fatto leggere:
Anime Nere che lasciano la locride per conquistare il mondo e finiscono con l’inondarlo di violenze e barbarie: La vita, fuori dalla terra di origine è fatta di spacciatori, omicidi, sequestri. Sconfitti!
In Il saltozoppo Gioacchino Criaco torna a raccontare una favola nera. Dove la vendetta è diritto di natura e il seme dell’odio coincide con il destino. “La Calabria è una terra strana, sospesa tra passato e presente. La sua lingua non contiene il futuro dei verbi, il domani è affidato al destino.”
E così a seguire gli altri fino all’ultimo libro inzuppato di visioni e fantasie “L’ultimo Drago d’Aspromonte dove la magia della montagna e delle sue fantastiche creature aiuta il protagonista a ritrovare la strada per la rinascita che il mondo che vive fuori dai suoi boschi non gli avrebbe consentito.
Il Custode delle parole racconta, con il solito linguaggio poetico e incantato di Criaco, che, come dicevo, spesso l’africoto condisce con l’olio della cultura grecanica. La sua narrazione e ruvida, corteccia di pini loricati, ha echi di leggende che si tramandano solo oralmente da padre a figlio e da figlio a figlio e spesso in un linguaggio che ha dimenticato le parole, quelle dei padri.
Sapete che i verbi del dialetto calabrese non prevedono il futuro? Il passato sì, anche il presente. Provate a dire in dialetto “io mangerò la minestra” oppure “andrò a Reggio”!
Il custode delle parole è il nonno di Andrìa un bellissimo giovane della jonica calabrese. Il nonno si è intestardito a custodirle e metterle in salvo, le parole.
“Andrìa, se a un popolo rubano le parole, quel popolo è morto. E la nostra gente non vive più già da qualche secolo; è morta e non lo sa […] Qualcuno si è preso le nostre parole, le ha messe in tanti sacchi e le ha fatte sparire. Come dici che l’ami a Caterina, in calabrese?”
L’unica espressione che mi viene in mente è ti vogghiu beni, ma non lo dico a nonno, perché ti vogghiu beni lo si dice anche a un parente, a un amico, e non è questo che provo per lei.
“Egò gapào, io dico così a nonna, e so di dirle che sono perso in lei, e lei sa che le sto dando le chiavi della mia vita e il potere di annientarla in qualunque momento”
Nonno è il custode delle parole. Ogni tanto ne sventra una e si fa parlare; e la lingua e quella ellenofona.
Il Custode delle Parole racconta la storia tra il vero e il verosimile di Andrìa e Caterina, innamorati che lavorano scontenti in un call center per pochi miseri euro al mese. Un giorno ai ragazzi capita di soccorrere da morte certa alcuni immigrati libici e tra questi Yidir che una predizione alla nascita gli ha dato cinque vite e già per quattro volte ha salvato miracolosamente la pelle. Il ragazzo viene accolto in casa e tenuto con sè dal nonno per aiutarlo nella cura delle mandrie. Yidir parla col nonno nella lingua dei padri che ha imparato da un altro nonno molto rassomigliante a questo calabrese nella sua oasi ed ha una sacra missione: guadagnare i soldi necessari per scavare un pozzo artesiano per la sua gente.
Andrìa che fino ad allora non s’è mai deciso né ad andar via, né a restare del tutto piano piano, a contatto con la saggezza e la determinatezza del nonno, ritrova anche lui la civiltà delle parole e capisce l’errore di tanti anni nel non segnare con decisione la sua strada.
Diventerà uomo dell’Aspromonte, la grande madre bianca, insieme alla sua Caterina.
Ecco, se c’è una riflessione severa da fare, Criaco non riesce a nasconderlo il senso di colpa di chi è andato via, ha lasciato la Calabria per cercare la sua strada lontano dalla Montagna Bianca, dai pastori e dal mare che odora di capperi, di sulla, di fichi melanzani. Ed è un senso di colpa ingiusto, che non ha motivo di avere chi questa terra non riesce a scrollarsela di dosso cucita come un vestito di pelle che nessuna civiltà di altre terre, nessun grattacielo o cucina di grandi chef, nessun lustrino da gran soirée, nessun premio letterario, potrà mai svestire. Criaco è uno dei tanti scrittori calabresi, come Alvaro, come Repaci, come Strati, come Altomonte, come Perri, che non sono andati via, ma hanno mandato in giro per il mondo un alter ego con il compito di portare ovunque un pezzo di calabresità.
Non è sbagliato pensare che la letteratura, mai come in questi casi, è stata artefice di buone credenziali e molte delle cose buone che nel mondo oggi si dicono e si pensano della Calabria sono dovute agli scritti di quelli che sono rimasti e di quelli che sono partiti senza andare via.
Per questo ha ragione Arcangelo Badolati, Gioacchino Criaco può benissimo essere considerato il nuovo Alvaro, solo che lo scrittore di San Luca non era figlio di pastori, l’Aspro Monte, la montagna bianca, l’ha solo raccontata, Criaco l’ha anche vissuta.