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di Natale Pace

C'era una volta... tutti gli scritti di Domenico Zappone potrebbero avere questo incipit. Che sia un servizio giornalistico, vero, verosimile o falso, in cui lo scrittore palmese s'inventa fantasie straordinarie, che egli fa diventare verosimili al punto che poi qualcuno ci crede e riporta l'evento frutto di quella fantasia affabulatoria e allora il verosimile fa il giro dei giornali di mezzo mondo come notizia di evento realmente accaduto e tutti ci credono e si muovono le televisioni per venire in Calabria, i fotografi di giornali più famosi, la copertina della Domenica del Corriere, per riprendere e fotografare i luoghi magici in cui quelle vicende raccontate da Zappone si sono verificate. E a nessuno mai passerebbe neppure per l'anticamera del cervello che non è mai esistito un cane di nome Bobby che aveva un padrone dal cuore così duro che, volendosene sbarazzare, lo abbandonava in lontane campagne e città e quello ritornava dopo qualche ora, giusto il tempo di percorrere a perdifiato il tratto di strada, a raspare con le zampine il portone di casa. E allora il padrone dal cuore duro decideva di portarsi dietro Bobby un giorno che doveva recarsi a Messina,, gli fa una giravolta e lo lascia ramingo oltre lo Stretto convinto di essersene finalmente sbarazzato. Ma si sbaglia, chè Bobby non è un cane comune e l'amore per il padrone dal cuore duro e per la casa dove ha vissuto tanti anni lo spinge all'estremo sforzo di attraversare lo Stretto a nuoto e ritornare a casa stremato, ma felice. E allora il padrone, intenerito fino alle lacrime, non lo caccerà più e tutti vissero felici e contenti. A nessuno verrà mai di pensare che sia tutto inventato il servizio giornalistico di Zappone sulla pesca del pescespada alla Tonnara di Palmi, dove un maschio di quella specialissima razza marina, che si vede arpionare la "fimmineddha, drittu, drittu 'nta llu cori" gira intorno alla spadara quasi impazzito di dolore e si lascia catturare per morire accanto alla sua amata. Ci credono tutti, ci crede Domenico Modugno che ne scrive una bellissima ballata senza confessare mai di avere preso spunto dall'invenzione giornalistica dello scrittore di Palmi.

C'era una volta... potrebbero cominciare così i racconti di Mimmo Zappone, "Il Mondo con le Scarpe" o "la Balena di Mare" , ma anche, anzi soprattutto i servizi dei suoi viaggi bellissimi in Sardegna, in Puglia, nelle Marche, in Calabria... in Calabria... leggete "A cena con gli ultimi sibariti" dove il favolista Zappone vi trascina a forza in un mondo scomparso da millenni, ma ancora vivo nelle abitudini e usanze dela gente locale, che si può incontrare tale e quale ancora oggi nelle contrade di Sibari, basta che si abbia il cuore puro dei fanciulli o di Zappone. E lo descrive con arguzia, con ironia condite di tanta, tanta malinconia. Io ho letto quasi tutto quel che ha scritto, anche alcune cose inedite che m i ha affidato Nanù Rosina Isola, la dolce compagna della sua vita in quei giorni che curai di organizzare la sua commemorazione, a pochi anni dal suicidio, e pregai Antonio Altomonte, Gilda Trisolini e Giuseppe Selvaggi di ricordarlo con tre memorabili interventi di amichevole ricordo e competente analisi letteraria; ho letto quasi tutto di lui e ho sempre trovato difficile accostare non il suo stile, ma quello spirito avventuriero che vien fuori da ogni suo rigo scritto, che pur di scandagliare a fondo un paese, un personaggio, pur di costringere il lettore ad entrare con tutto se stesso nello scritto ricorreva ad artefici, invenzioni e fiabesche trovate e allora il lettore ritornava ad essere fanciullo e col cuore di fanciullo si emozionava ai racconti zapponiani. I miei sforzi terminarono quando cominciai a leggere Dino Buzzati. Fu proprio nei racconti surreali, incantati, evocanti mondi reali che parevano appartenere ad altre magiche dimensioni di elfi e fate e gnomi del bellunese che mi parve di riscontrare le stese ascese letterarie di Zappone. Mancava forse in Buzzati l'ironia bonaria di certi angoli della mente del palmese e quel voler riportare sempre tutto al tempo della fanciullezza, al mondo di una volta, alle persone care, alle usanze e tradizioni, ai giochi e per questo mi verrebbe da credere che più che definire  Zappone come il "Buzzati del Sud", sarebbe da dire di Buzzati come "Zappone del nord", anche in considerazione della parallela esistenza ed età dei due.

Tutto questo per proporvi una favola di Zappone che penso non avete avuto occasione di incontrare nelle vostre letture. Anche queste potrebbe benissimo iniziare con un "C'era una volta..." e nessuno ne avrebbe sorpresa.  Zappone ci racconta la fiaba dello Scoglio dell'Olivarella alla Tonnara di Palmi. Mi pare di aver letto qualcosa del genere scritto da altri. Fa niente, l'importante è ammettere, tutti, che Mimì Zappone è stato il primo, il più grande.

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LEGGENDA DI UN ALBERO
di Domenico Zappone

Forse un tempo, nei lontani giorni della creazione, le isole andavano vagabonde per il mare, prima che una forza divina le incatenasse alle azzurre grotte del Mediterraneo. Tuttavia, in certi mattini d’aprile, succede che ancora ai nostri dì le isole rompano gli ormeggi e comincino a ruotare su sè stesse.

Ecco, dapprima sono percorse da un lieve sussulto che si confonde col vibrare dell’aria. Subito dopo, però, (e non c’è da sbagliarsi), scattando allo improvviso, si dispongono in cerchio come in girotondo, ma, trascorso un altro attimo, irrompono come furie per mare, invadono il quieto orizzonte.

Il sole le colpisce in pieno, ne delinea asperità e vallate, le fa rosee e lucenti, cerca di trattenerle trasformando il Mediterraneo in un grande specchio d’argento, ma invano, quelle, incalzate da un’oscura follia, irrompono sciamando, in un battibaleno sono prossime al lido, naufragheranno fatalmente, se qualcosa non le ferma, in una di quelle silenziose cale della costa, la cui intatta sabbia attende un’orma o un grido – peggio ancora, solleveranno onde a guisa di montagne sulla casette di Nicotera intervallate da filari di canne fiorite, resteranno all’asciutto come enormi cetacei guizzando nell’agonia.

Queste cose, - ripeto, - succedono di primavera, quando ogni stranezza è possibile e l’antico sangue si sveglia. Il viaggiatore, a quella vista, resterà col fiato mozzo nell’attesa terribile che l’evento si compia e, invece, superate appena le balze di quel paese, non senza gioia vedrà che gli aranceti di Rosarno scacceranno l’apocalisse delle isole e del mare, che riapparirà alfine a Gioia, quando il treno comincerà ad arrampicarsi verso i trafori di Palmi, in bilico sugli strapiombi macchiati di ginestre.

In questo mondo che ricorda il diluvio aspro e selvaggio come ai giorni della creazione, franarono un tempo incandescenti macigni dalle vette, sicché, conservando ancora il mai spento calore, l’acqua del mare, al contatto, frigge e ribolle. Oggi però le balze non rosseggiano di fiamma, ma scolorano per le foreste di ulivi alti come torri e forti come giganti, nella cui chioma grigia di balda vecchiezza il vento s’impiglia come in una rete.

Innamorate di questi alberi muovevano le isole di Vulcano, vagheggiandone un solo ramo che illeggiadrisse la loro aridità, ma questo non era possibile per la loro stessa natura.

Fu allora che un uccellino, impietosito per la più piccolina di esse, le lasciò cadere un grande seme tanto per accontentarla. Questo seme, lottando coi venti e le onde, forzando la stessa natura impietosa della roccia, riuscì a spingere la prima radice nella viva pietra fino a spremerle succhi e vita.

Oggi la pianta vive ancora e, come all’inizio, si nutre di mare e di roccia. I venti furiosi per la rabbia, le strappano le nere chiome, gliene fanno candide le onde che allagano la sommità dello scoglio al quale è aggrappata.

Per colpa di quest’albero che con le sue radici ha incatenata la piccola isola alla terra, muovevano nei prodigiosi mattini le isole di Vulcano. Percorrono tutto il mare nella vana ricerca, si spingono fin presso alle coste, lanciano disperati richiami, rischiano di arenarsi e di perdersi. Sconvolte dal dolore, vanno errabonde e piangenti alla ricerca della sorellina stregata dall’albero che porta in cima, empiono il mare di singhiozzi e di gridi, tornano infine straziate sulla linea dell’orizzonte, amaramente piangendo sulla misera sorte dell’infelice.

Esse non sanno invece che la loro pupilla, non è stata inghiottita dalle secche, ma vive in un anfratto misterioso e segreto da prigioniera; non sanno che essa le ha viste, dopo la scorribanda, allontanarsi e perdersi, quando le erano quasi prossime, e che ora, impazzita per il dolore che la sconvolge, agita senza pietà la chioma selvaggia, popolata di nidi e di uccelli.