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di Natale Pace

“L’Apollo Buongustaio” uscì per la prima volta nel 1960 a cura del poeta Mario Dell’Arco e durò fino al 1987. Iniziò quindi una nuova serie a cura di Sandro Bari, Francesca Di Castro, Umberto Mariotti Bianchi, Franco Onorati, Ugo Onorati e Mario Tornello. I curatori sono non erano solo scrittori (i loro scritti entrano nell’antologia) ma anche tutti cultori di Roma e delle sue tradizioni,

Inseriti in ordine rigorosamente alfabetico dell’autore, gli scritti trattavano di gastronomia regionale andando a recuperare tradizioni locali e piatti tipici dimenticati per lo scorrere del tempo, emozionanti proprio per questo.

In ordine alfabetico Domenico Zappone figurava buon ultimo nell’indice. Egli era stato introdotto a Dell’Arco da Leonardo Sciascia e, a sua volta, raccomandò la partecipazione delle due poetesse palmesi Ermelinda Oliva e Maria De Maria. La poesia di Ermelinda era già conosciuta era già assurta a chiara fama regionale e nazionale: vincitrice del Premio Amantea nel 1963 con la raccolta poetica “Il flauto minuscolo”, nel 1968 Carlo Betocchi la presenta su La Fiera Letteraria puntualizzandone la classicità di ispirazione e la sincerità del verso. Ancora qualche anno Sergio Solmi si disse “… colpito per il senso magico della natura” di quei versi palmesi. Era schiva, dedita al culto del cattolicesimo e della cristianità, aliena dai facili entusiasmi della poesia moderna. Seguiva il mondo e l’evolversi dei tempi dalla sua finestra della casa d’angolo di piazza Primo Maggio, nella stanzetta di lavoro che spesso mi ha ospitato. Si chiacchierava come due buoni amici di poesia (più le mie giovanili elucubrazioni che lei non mancava di incoraggiare col suo dolcissimo e tenue sorriso).

di Anna Foti

"Se dovessi sintetizzare i quattro punti cardinali della vita di questo grande artista calabrese, direi che sarebbero la sua Albertina, la famiglia o Jenia come egli amava definirla, le sue espressioni artistiche, l’attivismo politico e in esso certamente Gramsci", esordiva nel 2018 lo scrittore palmese Natale Pace in occasione di un incontro promosso dal circolo Rhegium Julii e dedicato al concittadino Leonida Repaci. Quattro punti cardinali rintracciabili anche nella pubblicazione dal titolo "Mio caro Leonida", che nel 2019 lo stesso Natale Pace ha dato alle stampe con i caratteri di Luigi Pellegrini Editore, amico di Leonida, che ha recentemente annunciato che pubblicherà un'opera omnia comprendente la ristampa di tutte le opere del fondatore del premio Viareggio.

Le lettere capaci di fermare momenti nella Storia e destinate ad attraversare decenni e oltre. Le lettere e la loro talento di parlare da altre epoche e di altre epoche e delle persone che le hanno percorse. Per il loro autorevole e luminoso tramite Natale Pace ha scelto di raccontare la storia di Leonida Repaci e, con essa, anche pagine della storia del nostro Paese.

di Anna Foti

Con amore e rigore racconta la città calabrese dello Stretto lo scrittore e intellettuale del Novecento, originario di Bovalino, Mario La Cava. A Reggio lo legò, nel tempo, un sentimento crescente e sconfinato al punto di rivendicare per la patria di Corrado Alvaro, Fortunato Seminara e Francesco Perri, un destino di città di cultura e di rara bellezza. Manifesto di questo amore è il volume “Lettere da Reggio Calabria”, contenente foto d’epoca e suoi scritti finora inediti e che il figlio Rocco, che ha in cura un patrimonio di altri elaborati mai pubblicati del padre nell’archivio di famiglia, ha raccolto in questo volume, edito da Nuove edizioni Barbaro, con il saggio introduttivo del critico letterario Giuseppe Italiano. Un vero e proprio omaggio alla città di Reggio Calabria da parte di Mario La Cava e suo figlio Rocco, pubblicato nel 2016.

Una vita trascorsa a vergare quotidianamente la carta con la sua penna asciutta, quasi frammentaria, convinto come era che lo scrittore dovesse rievocare la vita, esprimendo un dato naturale in modo fresco, ingenuo e personale, senza lasciarsi influenzare. La curiosa osservazione per Mario La Cava iniziava dalla sua Calabria e dalla provincia reggina, la sua provincia, con in sé tutto, folklore e grandi sentimenti in un intero mondo in miniatura.

di Anna Foti

        «Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo “dando volta”, leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni!» . Lo scrittore piemontese Cesare Pavese descrive così l’esperienza di confinato a Brancaleone nella lettera al suo professore Augusto Monti. «Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un’inutile castità», prosegue ancora nella missiva. 

            Lo zibaldone - di leopardiana memoria -  è quello che lo scrittore piemontese inizia a scrivere il  6 ottobre 1935 a Brancaleone.
 «Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano coll’acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un’esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie».